La consulenza filosofica è morta. O, meglio, non è mai nata 8


All’incirca in questo periodo, diciotto anni fa, mi ritornò alla mente un articolo su “il manifesto”, letto un anno o due prima, nel quale si parlava di un filosofo “professionista” che aveva aperto uno studio ove riceveva persone per affrontare filosoficamente le loro difficoltà. La cosa mi aveva colpito, quando l’avevo letta, principalmente per una ragione: perché finalmente qualcuno era riuscito a dare alla filosofia il valore economico che è giusto spetti ad attività e cose che hanno importanza. Non avevo però dato seguito a quello stimolo, che ricordai solo a seguito di alcune discussioni e riflessioni critiche sulle psicoterapie. Mi documentai e scoprii che in quell’articolo si parlava di un certo Gerd Achenbach, del quale allora trovai scarsissimi riferimenti su un web ancora non molto frequentato. Così che, nel dicembre del 1998, mi recai a Monaco appositamente per cercare sue tracce bibliografiche alla Bayerische Staatsbibliothek. E le trovai, tornando a casa con le fotocopie della versione originale di Philosophische Praxis e di un paio di altre sue cose, insieme a una raccolta di saggi statunitensi, curata da un per me allora sconosciuto Ran Lahav.

In quel suo primo libro, che lessi avidamente anche se faticosamente, Achenbach era molto, molto chiaro: se dal punto di vista critico-dialettico la “nuova professione” a cui aveva dato vita si distingueva dalla filosofia accademica da un lato e dalle psicoterapie dall’altro (distinzioni non da poco, visto che, comunque, omnis determinatio est negatio), dal punto di vista “positivo” essa poggiava su un pilastro decisivo: la filosofia come professione. Nessun dubbio su questo, visto che Achenbach non solo sottolineava più e più volte quanto fosse stato fino ad allora pesante per i filosofi guadagnarsi il pane “facendo un altro mestiere” (per esempio gli insegnanti), ma intitolava anche uno degli scritti della raccolta proprio alla “Filosofia come professione” (“Philosophie als Beruf”) e – forse soprattutto – denominava la sua attività con un’espressione che, in tedesco, rimanda alla professione: “Praxis”, infatti, in Germania significa nel linguaggio parlato in primo luogo “ufficio”, “studio”, “gabinetto” e in secondo “prassi”, “processo”, ovvero ciò che si esegue in un’attività professionale. Nessun riferimento diretto, quindi, all'”aver effetto pratico” – come vorrebbero molti di coloro che si occupano di questo settore – cosa che infatti già prima della Praxis era di competenza della filosofia pratica e, più recentemente specialmente in America, della filosofia applicata.

Questo dato andrebbe tenuto ben presente quando si discute di quelle che oggi – in Italia e, in forma un po’ diversa, anche in quella “bolla” internazionale in cui si parla inglese (un “si” che suona come il “man” di heideggeriana memoria) – vengono sempre più confusamente chiamate “pratiche filosofiche”: nella sua prima versione, quella dell’attività di Achenbach, l’aggettivo “pratica” non rimanda infatti né ad “avere un effetto”, né a “trasformare” (su questo problema tornerò in altro post), bensì a “processo che caratterizza un’attività professionale“.

Sfortunatamente, però, a oltre trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis e a sedici dal suo approdo in Italia come Consulenza Filosofica, di fatto si deve constatare la concreta assenza sia di una professione – nel senso che non esiste una neppur minima presenza di professionisti che svolgano una “professione filosofica”, se non a margine delle loro altre attività principalmente formative, come del resto sempre successo in passato – sia della messa a fuoco di quel “processo” che dovrebbe caratterizzarla. Questo sicuramente in Italia e, a quanto mi è dato di capire, anche nel resto del mondo, Germania compresa. Non solo: paiono crescere le voci di chi sostiene che, per ragioni diverse, un’attività filosofica in quanto tale sia impossibilitata a essere una professione, così che “Philosophische Praxis”, “Philosophical Practice” e “Consulenza Filosofica” (tralascio “Philosophical Counseling”, che richiede un distinguo a parte) sarebbero destinate a rimanere solo attività volontarie e meritorie, attraverso le quali i filosofi provano a rendere il mondo migliore grazie alle (presunte) qualità (soprattutto morali) della filosofia.

Ad alimentare lo scenario appena delineato (con qualche inevitabile semplicizzazione) convergono molteplici fattori, che spero di poter enucleare in futuri interventi. Qui mi vorrei limitare a trarre alcune conclusioni, che presenterò in forma apodittica solo per amor di discussione.

Se è vero (e lo è) che il primo e forse unico elemento “positivo” dell’identità della “pratica” achenbachiana era il suo essere una professione, allora

  1. una pratica, anche simile, che abdichi a questo aspetto le si allontana in modo decisivo – ovvero non è la stessa pratica;
  2. datosi che oggi la cosiddetta “consulenza filosofica” non annovera tra i suoi praticanti un numero significativo di “professionisti” – cioé persone che vivono esclusivamente o almeno principalmente di questa attività -, allora la “consulenza filosofica” non è mai veramente nata;
  3. essendo questa “mancata nascita” connessa all’assenza dell’individuazione del “processo” che il “filosofo professionista” dovrebbe attivare, tutto lascia pensare che vi sia tra la seconda e la prima un rapporto di causa/effetto;
  4. l’idea, che sempre più si diffonde, di scindere la “pratica” dalla sua “professionalizzazione” altro non è che il tentativo di uccidere definitivamente il nascituro che tanta fatica sta facendo per venire al mondo.

Da queste considerazioni è indispensabile ripartire se si è ancora interessati all’attività messa a punto da Achenbach agli albori degli anni Ottanta. In caso contrario, che si chiuda questo capitolo e se ne apra un altro. Con chiarezza.


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8 commenti su “La consulenza filosofica è morta. O, meglio, non è mai nata

  • Rocco

    Ciao..penso che la filosofia come possibilità pratica di avere un ruolo distinto è definito non possa attualmente affermarsi. Sono convinto che gradualmente le si possa riconoscere una posizione fondamentale per riscoprire il senso della vita , la funzione del dialogo , ritrovare in sé e negli altri nuove aspettative . Il consulente filosifici stenta a decollare ..ma nella quotidianità ognuno nel suo piccolo per aiutare , collaborare, affermare il ruolo della filosofia .

    • claracassinelli

      convengo sull’estrema importanza del ruolo del dialogo. tuttavia dissento sulla gradualità del riconoscimento, anzi, invoco l’urgenza e l’improcrastinabilità dell’azione filofica. è quanto mai necessario oggi che si diffonda e diventi di ‘uso comune’ la figura del consulente filosofico, quale veicolo di diffusione della pratica del pensiero e della riflessione critica, messa a repentaglio dall’uso quotidiano di dispositivi cosiddetti di “comunicazione”, ma che in realtà disumanizzano i fruitori e il contesto ove si applicano, interrompono la realtà (originariamente consistente in percezione multisensoriale) e la falsificano, deformando anche la percezione della continuità spazio-temporale, consentono la riproducibiltà all’infinito, privilegiando l’aspetto logico a scapito dell’immediatezza emotiva. ne deriva impoverimento della persona, sia nella propria percezione di sè che nel rapporto con gli altri. il consulente filosofico ha il compito di fornire le basi da cui iniziare a ricostruire solide fondamenta.

  • Matteo Papini

    Caro Neri, innanzitutto grazie per la consueta, spietata, chiarezza. Speravo che ci saremmo incontrati alla ICPP a Berna, mi è dispiaciuto apprendere della tua assenza. Se non erro il titolo del tuo intervento alla Conferenza rimandava all’ipotesi di formare un gruppo di riflessione sulla professione (o qualcosa di simile). La tua analisi qui sopra mi dà da pensare, dopo diversi tentennamenti e oscillazioni quest’anno, a giugno, ho preso in affitto uno studio con l’idea di dar avvio alla professione… Pare che sia destinato ad arrivare “dopo i fuochi” (si dice così qui a Spoleto), come quando ti proponevo un libro sul rapporto fra direzione spirituale e consulenza e tu mi comunicasti che la collana di Apogeo non esisteva più… mi sento la Nottola di Minerva (che già sarebbe qualcosa…)! Concordo con la tua analisi e penso quindi che si debba ragionare sul punto 3, cioè sul processo che il filosofo professionista dovrebbe attivare, mi par di capire che questa sia l’unica speranza per dare un esito positivo alla faticosa gestazione della consulenza. Voglio leggere questo tuo articolo più come un invito a ripartire più seriamente che come una constatazione di morte avvenuta e, sebbene non mi sembri di avere attualmente riflessioni risolutive da proporre ci tenevo a comunicarti la mia intenzione di partecipare alla riflessione

  • Riccardo

    ciao, non vorrei dire una sciocchezza, ma così, ad una prima lettura, verrebbe da dire che forse una traduzione più forte, incisiva, dell’attività messa a punto da Achenbach rispetto a “consulenza filosofica”, dovrebbe risuonare in italiano più o meno così: “filosofia commerciale” o “bottega filosofica”.
    Ottime le riflessioni che legano la professione agli effettivi professionisti, ma credo che da questo punto di vista il tentativo di produrre una filosofia altra da quella accademica in verità finisca per ricalcare il modello antagonista trasformando comunque la filosofia in una sofistica.
    A mio avviso la Consulenza Filosofica potrebbe cercarsi con maggior successo pensandosi come movimento, ovvero quale insieme di persone accomunate dall’interesse a far incontrare la Filosofia e la società.
    R.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Caro Riccardo, hai ragione quanto alla traduzione, anche se le tue proposte non mi convincono (la prima svilisce, la seconda mette l’accento solo sul luogo e non sul fare). Quanto al produrre una filosofia altra, concordo con te, infatti io non distinguo la filosofia “accademica” dalla “philosophische Praxis”, anzi credo che questa sia comune anche a quella. Il problema della filosofia “accademica” non è il tipo di filosofia ma l’ambiente, ovvero l'”accademia”, che trasforma l’azione del filosofo in qualcosa finalizzato a una carriera. L’astrattezza della filosofia che vi si svolge è un falso problema, se non addirittura una perversione dei cosiddetti “filosofi praticanti”, perché la filosofia è sempre “astratta”, anche quando la si pratica con un consultante non filosofo; anzi, il suo valore sta proprio in quello, che le permette di “astrarre” dall’urgenza e dall’emotività per guardare le proprie situazioni con un (almeno parziale) distacco analitico.
      Sull’ultima cosa andrei più cauto, perché la filosofia si incontra con la società in tanti modi, alcuni dei quali non molto compatibili con quel che facciamo noi. Per esempio, i filosofi (e non solo quelli di “accademia”) tendeno spesso a proporre le “teorie” che hanno elaborato nella loro riflessione come panacee per i mali sociali, come prodotti da “applicare”: ciò è esattamente il contrario di quel che facciamo (o dovremmo fare) noi, che invece elaboriamo NUOVE teorie ASSIEME ai nostri interlocutori. Grazie per l’intervento!

      • Angelo Cannata

        Sono personalmente molto interessato a ciò che riguarda la filosofia come pratica, come vita. Personalmente la chiamo spiritualità, un termine che io intendo non nei significati correnti, ma proprio come filosofia che cerca di essere aderente alla vita. Che ne direste della creazione di un forum di discussioni al riguardo, ben gestito? Ho visto che oggi in tutto il mondo esiste un solo forum filosofico in inglese che sia abbastanza ben gestito; un altro soltanto in italiano.

  • Giorgio Giacometti

    Con altrettanta chiarezza, come puoi immaginare, concordo con le tue conclusioni 1, 2 e 4, ma assolutamente non con la 3, La mancata nascita della consulenza come professione,posto che l’individuazione del processo finora sviluppata mi appare più che sufficiente (come testimoniano i tuoi stessi scritti e quelli di Achenbach), è legata, a mio parere, ad altro.

    Come ho scritto altrove, mancano, secondo me:
    a) un reale interesse a esercitare la professione, mettendosi davvero in gioco, da parte degli aspiranti filosofi consulenti (molti dei quali hanno già o aspirano ad avere un lavoro più tradizionale, spesso un lavoro dipendente: questo riduce fortemente la motivazione a fare della c.f. una professione in senso pieno)
    b) una formazione davvero capace di esercitare gli aspiranti consulenti al dialogo dal vivo che permetta loro di acquisire quelle competenze comunicative e critico-dialettiche che, per lo più, essi non hanno appreso all’università (mi dirai che occorre definire queste competenze, e io ti rispondo che sono già abbondantemente definite, ma ben poco praticate e meno ancora oggetto di esercitazione)
    c) l’intercettazione attenta della vere domande filosofiche, individuali e sociali, provenienti dal “mercato”
    d) l’individuazione di best practices che suggeriscano, magari sulla base di dati oggettivi stili maggiormente capaci di attrarre utenza (e, dunque, di trasformare la consulenza in professione capace di auto-sostentarsi)

    Se ci rifletti, siamo più d’accordo con te di quello che a volte non appaia (almeno su tre punti su quattro) e più con te che coloro che dubitano che si possa fare della filosofia una professione.
    Possiamo anche dire così: sono molto più ottimista di te sull’individuazione del “processo” (operazione già compiuta e non da compiere, forse non abbastanza “comunicata” od oggetto di esercitazione, come detto). Per questa ragione cerco altrove le “cause” del mancato decollo.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Carissimo, dici sempre di imparare dall’esperienza e allora non nasconderti dietro un dito quando l’esperienza ci dà delle informazioni nette! Come sai, unaimportante giornalista mi disse, dopo un’indagine attenta e abbastanza ampia, che a suo parere la professione non esisteva perché non uno dei molti presunti “professionisti” che aveva interpellato aveva parlato di ciò che faceva non dico nello stesso modo ma neppure in modo comparabile a come ne parlavano gli altri. La sua conclusione fu che, se avesse potuto, neppure avrebbe scritto l’articolo. Una cosa simile mi disse una consultante giunta nel mio studio di Firenze da Milano (sic!) dopo aver letto i siti internet di consulenti della sua zona, così diversi l’uno dall’altro da farle dubitare che esistesse una “professione” (venne da me, per sua ammissione, perché il mio sito era più chiaro e rigoroso degli altri e perché si capiva che ero tra i più attenti alla ricerca).
      La realtà, Giorgio, è che una definizione del “processo”, di ciò che “si fa” in consulenza, non c’è nella letteratura, neppure nella mia o in quella di Achenbach. Forse ci si può ricavare, ma esplicitamente non c’è. Così che ciascuno spaccia la professione per quello che gli piace di più. E’ tanto vero, che tu sei solito dire che è meglio non specificare oltre ciò che abbiamo fin qui detto e scritto, altrimenti alcuni nostri storici compagni di strada non ci si riconoscerebbero più. Ma, ‘sì facendo, i risultati sono quelli riportati da quella giornalista e da quella consultante in trasferta forzata (e per una che si fa 300 km ce ne sono 100 che vanno da uno psicoterapeuta…).
      Non solo: tu lo confermi anche in questo tuo intervento, quando parli di “identificare le best practices”: “practice” in inglese significa tanto “pratica” quanto “professione”; indicando che a una pratica corrisponde una professione; se tu ne parli al plurale stai indicando non una ma _più_ professioni, mescolare le quali non favorisce lo sviluppo di nessuna di esse. Io, dopo ben 17 anni di attività, ho ben identificato la mia pratica professionale; non so se sia la “migliore” (“best”), ma so che è buona, molto buona, me lo dicono gli ospiti e le loro vite. Se tu o altri ancora siete a “identificarla” fate pure: confermate con ciò quel che dico da tempo – che vi manca un’identificazione, una definizione, che io ho già. Ma, per favore, quando la trovate chiamatela con un altro nome: la “consulenza filosofica” c’è già, fatela vivere invece di soffocarla.