Professione filosofo, una lezione dai giornali: si sarà capaci di ascoltarla? 13


Ieri, domenica 24 settembre, dopo molto tempo un giornale a tiratura nazionale – La Repubblica – è tornato a occuparsi della filosofia fuori le mura. E, forse per la prima volta, è comparso un articolo competente, preciso e giustamente critico, scritto da una persona – Donata Romizi – che la materia la conosce bene (ha studiato con Achenbach) e ne ha una prospettiva internazionale (insegna Philosophische Praxis all’Università di Vienna).

Un articolo che, senza troppe chiacchiere, accenna alle differenze di orientamento (non solo nostrane), ma poi spiega molto direttamente e chiaramente cosa sia la specificità della Philosophische Praxis (e quella della consulenza filosofica, se ancora le aderisse): una “indagine  di tipo prevalentemente razionale” condotta in comune da consulente e ospite, che ha al centro “il problema, la domanda, i concetti su cui l’ospite interpella il filosofo” e che non fa uso diretto di pensieri e dottrine dei filosofi del passato. Un’indagine che ha di mira la “elaborazione comune di nuove teorie sul mondo e su se stessi” (quante critiche ho ricevuto per averlo sostenuto!) con “il fine primario (…) di approfondire, migliorare, allargare la comprensione del problema – nel senso filosofico classico: cercare insieme la verità”, perché “un miglioramento della condizione psico-emotiva dell’ospite”, che pure spesso accade, “non è il fine principale dell’indagine filosofica”. Un’indagine che è un’analisi de “le ragioni a sostegno di un certo modo di pensare” le quali, “ove si rivelassero deboli”, “potranno anche essere sottoposte a critica“, cosa che gli psicoterapeuti e i counselor non fanno (altro che “ascolto non giudicante”…).

Una concezione, questa, che è poi quella achenbachiana e che tiene fuori tutte quelle scorie della nostra cultura corrente che invece, pian piano, sono state reintegrate nelle concezioni della consulenza filosofica di molti sedicenti professionisti italiani: il “benessere”, la soddisfazione dei bisogni, l’attenzione al corpo e al non verbale – tipici della mentalità emotivistica che pervade la nostra società – o la soluzione dei problemi e l’efficacia – tipiche degli approcci tecnico-strategici che vanno per la maggiore.

Quasi tutto quel che è scritto in quell’articolo corrisponde a quanto vado dicendo, sempre più inascoltato, da tempo. Ma la cosa che mi ha più commosso è leggere in conclusione una spiegazione del famigerato e tanto dibattuto scarso successo di mercato della professione (non solo in Italia) esattamente negli stessi termini che – ancor più inascoltato – professo da almeno tre anni.

“A più di trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis” scrive la Romizi “non si può dire che la professione in quanto tale si sia affermata: al mondo sono pochissimi i filosofi pratici che riescano a vivere di questo” (una cosa, va detto, che raramente i dispensatori di percorsi formativi segnalano ai potenziali formandi). “Il che” prosegue “poco stupisce: non esiste a tutt’oggi un profilo professionale definito e condiviso, non c’è un percorso formativo anche solo tendenzialmente omogeneo, non c’è consenso sugli standard di qualità, non c’è nemmeno consenso su cosa sia – in definitiva – la Pratica filosofica!”

E’ quel che io ho scritto anche su questo blog e detto più volte in interventi pubblici e in scambi privati: non esiste, concretamente, la consulenza filosofica come professione, né una professione filosofica qualsivoglia (se non, forse, la Philosophy for Children lipmaniana e l’ABOF di Romano Màdera), perché non esistono né definizioni chiare e (sufficientemente) univoche della professione, né formazioni uniformi tra coloro che (pretendono, o desidererebbero) praticarla. E questo ha una conseguenza precisa: finisce per riportare indietro le lancette della filosofia a prima della cosiddetta “svolta pratica”, mettendo sul mercato proprio quel concetto di filosofia tanto vago, mutevole e plurale da meritarsi la pessima fama che l’ha di fatto relegata in un angolo della nostra società – “la cosa con la quale o senza la quale tutto rimane rimane tale e quale”.

“L’agire nel mondo richiede un certo grado di dogmatismo” afferma con acume la redattrice dell’articolo “e l’esistenza di una professione presuppone una certa omogeneità di pensiero tra chi la pratica: cose che riescono tipicamente difficili ai filosofi”. La tanto declamata “libertà” della filosofia e della consulenza filosofica, per essere sensata deve essere esercitata – come tutte le libertà – all’interno di uno spazio sufficientemente delineato, definire il quale è quel “certo grado di dogmatismo” senza il quale una professione non può svilupparsi, forse neppure nascere.

“L’idea della filosofia come libera professione” conclude crudamente la Romizi “getta la filosofia in un campo magnetico contraddittorio di attrazione-repulsione verso il mondo. Qualche filosofo la chiamerebbe “dialettica”, e se ne aspetterebbe buoni frutti. Un imprenditore la chiamerebbe “confusione” e prospetterebbe un esito fallimentare. Il futuro è aperto”.

Certo, è aperto. Ma solo se avremo l’intelligenza di “imparare dagli errori” del passato, spazzando via la confusione e fissando dei criteri unificanti, la cui assenza è la ragione dell’attuale fallimento. Ma già sento qualcuno obiettare che questa è una lettura popperiana e che invece Kierkegaard… E un altro ribattere che no, come dice Foucault… E un terzo tornare a dire che non c’è solo Achenbach…

E il futuro mi pare subito assai più chiuso.


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13 commenti su “Professione filosofo, una lezione dai giornali: si sarà capaci di ascoltarla?

  • Giorgio Giacometti

    Il problema è che, mentre, forse, per certe professioni, un certo “dogmatismo”, cioè il fatto di fondarsi su principi non revocabili in discussione, pena l’uscita dal campo professionale, è necessario, nel caso della filosofia il dogmatismo, termine chiave che, finalmente, tu stesso hai invocato e sdoganato, per contraddistinguere la tua prospettiva, è la negazione assoluta del filosofare, la sua morte. Se, dunque, per far vivere la filosofia come professione, bisogna ucciderla, hanno ragione coloro che pensano (come l’ultimo Lahav, forse Stefano Zampieri ecc.), che la filosofia non possa diventare una professione. Ma per “perimetrare” un campo professionale non è affatto necessario alcun dogmatismo, né per la filosofia, né per altre professioni. E’ sufficiente far leva sull’esperienza storica, coagulabile certamente in “mappe” provvisorie e rivedibili (come la “perimetrazione” di cui si è dotata l’Associazione Phronesis), e su un certo numero di casi paradigmatici che, finora, hanno fatto scuola. La delineazione della consulenza filosofica, nel solco dell’achenbachiana “Philosophische Praxis”, quale emerge dal citato articolo, mi sembra, in realtà, tutt’altro che un invito al dogmatismo, ma la giusta evocazione di una tradizione ben riconoscibile, da cui tutti coloro che hanno un certa storia non possono non partire.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Abbiamo notoriamente posizioni diverse non solo sulla professione ma anche sulla filosofia. Quel che tu sostieni nei tuoi scritti sulla consulenza (oltre ad essere autocontraddittorio) va palesemente in conflitto con quanto scritto in quell’articolo. Ma anche il modo “storico” in cui interpreti la filosofia – quel che io chiamo “filosofia dei professori” o “filosofia accademica” – è vetusto, è ciò che “la sfida della Philosophische Praxis alla filosofia accademica” doveva superare, proprio grazie all’esercizio di “un certo grado di dogmatismo” nella delineazione della _prassi_, ovvero quel che io chiamo _processo_. Che è poi quel che Achenbach ha effettivamente esercitato in “Lebenskönnerschaft”, non a caso il più trascurato e sottovalutato dei suoi lavori, che io considero invece la chiave di volta della pratica. Non lo capisci, ciò mi dispiace, ma è comprensibile: i ruoli performano e dopo tanti anni di esercizio dell’insegnamento è fatale che tu non riesca a sporgliarti di una certa lettura. Il fatto che _gran parte_ dei sedicenti consulenti filosofici venga dall’esercizio dell’insegnamento è parte del problema.

      • Stefano Zampieri

        Non entro su questioni chiaramente interne all’Associazione Phronesis, ma approfitto per qualche osservazione che potrebbe tornare utile al dibattito aperto da questo bell’articolo di Repubblica (sono d’accordo con Neri su questo, finalmente una ricostruzione trasparente e non ipocrita della situazione da parte di una persona competente). La mia sensazione è che continuiamo a sbattere la testa contro una contraddizione che non è risolvibile, e che per altro lo stesso articolo suggeriva nel finale. C’è poco da fare, se si vuol fare della filosofia una professione bisogna accettare le regole della professionalità. Non averlo fatto, cercando soluzioni di compromesso, aggirando gli ostacoli, inventandosi definizioni insostenibili, ecc. è una dei motivi per cui la professione “non è decollata”. Proporre un’attività come professionale impone certe scelte, (dogmatismi? Non lo so forse), non si può continuare a fare una battaglia per rifiutare concetti come l’aiuto, la cura, il rapporto con il cliente, la questione dell’efficacia e della sua misurazione, non si può presentarsi sul mercato senza una provenienza comune (cioè una filosofia della consulenza, un’antropologia, un’idea dell’uomo ecc.) identificabile, un metodo di lavoro riconoscibile (che non può certo essere l’improvvisazione caro Neri, tema su cui è più facile sorridere che interrogarsi, e sul mercato riproduce l’ironia sugli italiani fantasiosi ma poco rigorosi), strumenti e protocolli condivisi. O si accetta questa impostazione o non si fa professionismo. La storia di questi 15 anni lo ha testimoniato in modo inequivocabile. Personalmente non intendo accettarli e infatti mi oriento oggi con molta soddisfazione verso la realizzazione di pratiche filosofiche CON gli altri non PER gli altri, nella creazione di spazi di pensiero e nel lavoro di ricerca intorno a una filosofia nel quotidiano (ciò che nella mia visione dovrebbe essere una filosofia della consulenza filosofica). E non ho nulla da replicare a chi decidesse infine di farsi carico veramente del “professionismo” in questo senso. Purchè sia cosciente che la contraddizione in questo caso non può esser aggirata, ma deve essere affrontata scegliendo una via o l’altra.

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Sono d’accordo con la sostanza di quel che dici, Stefano, cioé sul fatto che se si vuol fare professione bisogna accettare le regole della professionalità. Magari non necessariamente tutte, anzi, molte si possono anche “forzare” per cambiarle anche a livello sociale, ma alcune no, è necessario accettarle. E sono d’accordo che non ci si può presentare sul mercato senza una concezione della consulenza e anche della filosofia (parlerei di “concezione” e non di “filosofia”, altrimenti replichiamo l’uso accademico del termine), e anche di una antropologia (seppure qui pensi ne basti una minimalissima, per non dire vaga).
          Ciò su cui non sono d’accordo è che serva un “metodo” di lavoro: basta una cornice processuale, da interpretare nel modo più vario, personale e adeguato alla situazione – come noto sempre diversa di caso in caso. E’ colpa mia che non ho mai approfondito né spiegato bene il tema, ma l’improvvisazione – che non è un metodo – è una cosa estremamente rigorosa: lascia liberi di creare il proprio percorso, ma richiede il rispetto di determinati elementi processuali. ci sono studi complessi e ricchissimi sul tema, svolti da filosofi e non solo. In ciò è analoga a quel che Achenbach scrive della philosophische Praxis in “Lebenskönnerschaft”, come dicevo in risposta a Giorgio il più sottovalutato e trascurato lavoro di Gerd. Poi quel processo può certamente essere espresso anche in altri modi, ma non è necessario che diventi un “metodo”, anzi è fondamentale che _non_ lo diventi. E’ un vero peccato che, nei molti anni che abbiamo lavorato assieme, su questi temi non si sia mai riusciti a confrontarci a fondo (ricordo una chiacchierata a due per le strade di Torino a margine di un convegno, saranno cinque o sei anni fa…).
          Detto questo, la tua scelta è certo legittima: l’ho sempre pensato per Ran, a maggior ragione lo penso per te. Casomai posso osservare che non è stata spiegata bene, o almeno con la calma e la serenità necessarie. E non capisco perché, dopo averla presa, tu sia comparso all’interno di una cornice professionale come Pragma. Ma questo avrà senz’altro un senso che potrai spiegare.

        • Giorgio Giacometti

          Anch’io penso che quell’articolo di “Repubblica” sia molto interessante, ma, a leggerlo tutto, si comprende come chi l’ha scritto da un lato sembri suggerire, certamente, ai filosofi di darsi una “forma” professionale, lasciando all’accademia (per usare un termine di Neri) l’infinita e vacua “dialettica” tra le posizioni teoriche, ma, dall’altro lato, mostri chiara consapevolezza della difficoltà (della non banalità) dell’operazione, quando si tratti di filosofia.
          La mia posizione (rappresentare la quale come “accademica” mi appare francamente caricaturale) sembra paradossalmente vicina a quella di Neri, quando dice che non si tratta di individuare un “metodo” codificato, ma solo un “processo” che contraddistingua la c.f. come professione. Il mio appello alla dimensione “storica” vuol essere proprio il riconoscimento che la c.f. non nasce nel vuoto di una astratta riflessione accademica su quello che la filosofia “praticata” potrebbe essere o non essere, ma da un’esperienza ben precisa, che ha un’origine in G. Achenbach, e si continua nell’esperienza di chi è riuscito tra mille difficoltà a fare della pratica filosofica un’attività professionale, per quanto talora in modo discontinuo o sporadico. .
          Il percorso di riflessione che stiamo facendo in Phronesis non è che il portato di tale storia e di tale esperienza. Esso ha condotto, mi sembra, proprio a mettere in ombra un certo modo “astratto” di pensare la c.f. (come p.e. il fatto che quasi si faccia un vanto di non risolvere problemi) per valorizzare invece altri aspetti emersi nel tempo, come le centralità del consultante, la sua “fioritura” ecc. (tratti legittimabili attingendo a un certo modo di intendere la filosofia di origine antica). Questo percorso dovrebbe poter ammettere un gran numero di “variazioni sul tema” senza che chi le propone o lo sperimenta debba essere tacciato da altri di essere “fuori dalla consulenza filosofica” (o, magari, senza che, per il fatto di non concordare con la maggioranza degli altri, debba percepire se stesso come “fuori dalla consulenza filosofica targata Phronesis”). Poi, certamente, si possono costituire tante mini-associazioni professionali quanti sono i modi in cui è legittimo intendere e praticare con più o meno successo la c.f. come professione (in modo che ciascuno di questi modi abbia una “forma” professionale chiara e riconoscibile all’esterno) e tra queste potrebbe esserci anche Phronesis (anche se il rischio è che questa “definizione”, più o meno dogmatica, rischi di mettere in crisi il tratto meta-teorico della pratica filosofica su cui non io, ma Achenbach ha originariamente messo l’accento, seguito da Contesini e altri) oppure un’associazione “ombrello” (come io intendo che Phronesis debba essere) all’interno della quale questi diversi modi possano coesistere, nella chiarezza e nella distinzione (ogni singolo professionista potrebbe dichiarare dettagliatamente sul proprio sito qual è l’epistemologia della pratica a cui egli fa, per ora, riferimento). Questa associazione “ombrelllo” (ricordiamo l’esempio degli psicologi le cui associazioni locali mescolano comportamentisti, cognitivisti, costruttivisti ecc.) non dovrebbe fare altro che avere nella sua home page qualcosa di molto simile all’articolo che abbiamo tanto apprezzato apparso su “Repubblica”: dovrebbe cioè dichiarare con verità qual è storicamente lo stato dell’arte nel mondo delle pratiche filosofiche.

          • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

            Caro Giorgio, rispondo solo a un dettaglio – la concezione della filosofia – perché il tema dello statuto delle associazioni non mi interessa più direttamente, casomai è questione generale alla quale dedicherò uno specifico intervento.
            Definire la tua posizione “accademica” non è per niente caricaturale, e lo confermano le tue parole. La concezione “storica” della filosofia, che rivendichi sopra, è infatti una concezione accademica. Che confonde la “prassi produttiva” delle idee (quella che esercitano i filosofi quando creano idee nuove) con la collezione storica delle idee (che usano i professori per insegnarle agli studenti). Questa è giustappunto la “filosofia accademica” che la “philosophische Praxis” intendeva sfidare e scardinare, mettendo l’accento sulla filosofia come “prassi processuale” – come “filosofare” – e lasciando sullo sfondo il contenuto storico di dottrine.
            Tutto questo è stato grossolanamente frainteso da tanti e mi dispiace che tu, che hai grandi capacità, sia tra questi tanti. Ma, come dicevo nell’altra risposta, la responsabilità è quasi certamente della tua lunga frequentazione della pratica dell’insegnamento: come diceva già Sautet, gli insegnanti pian piano perdono la capacità di essere filosofi, di creare idee nuove, e si rifugiano nell’ostentazione delle cose dette da altri. Magari belle, ma dottrinarie, non filosofiche, proprio perché già dette.
            Questo fraintendimento si appoggia poi su un altro, quello della parola “pratica”. In “Philosophische Praxis” la parola è un _sostantivo_, quindi individua un’oggetto; nella duplicità del significato tedesco, il sostantivo significa al tempo stesso “professione” e “prassi”; tradotto in italiano l’espressione co-significa “professione filosofica” e “prassi filosofica”. Viceversa oggi “pratica” viene inteso come un _aggettivo_, tant’è ceh c’è persino chi parla di “filosofia pratica” e filosofi pratici”, stravolgendo tutto il senso del campo disciplinare. Ora, io penso che la filosofia sia _sempre_ pratica, anche quando è astratta, e che quest’espressione sia ridondante se non usata nel senso disciplinare in auge da oltre due secoli (Filosofia pratica individua infatti materie come la filosofia del diritto, la filosofia della politica, l’etica), ma anche se non si fosse d’accordo con me resta il fatto che “si fa pratica” anche la “filosofia applicata”, la quale rientra perfettamente nella tua concezione, è una materia della filosofia accademica, e soprattutto è UFFICIALMENTE esclusa dalla Philosophische Praxis, tanto che proprio su questo snodo la IGPP si è scontrata con parte della comunità internazionale e ne è poi sostanzialmente uscita. E tu lo sai, perché quando è successo eri presente.
            Come dicevo tornerò sull’altro tema, ma già qui potrei chiederti: stanti queste MACROSCOPICHE differenze di concezione della filosofia, come vuoi che sia possibile dar vita ad “associazioni ombrello”? Io sono uscito da Phronesis anche perché per me era già così tanto “ombrello” da farmi convivere con persone la pratica delle quali danneggiava l’immagine della mia – non (sempre) nel senso che facessero cose scorrette, ma comunque in quello che le loro pratiche ernao _così diverse e lontane da quel che faccio io_ che confondermi con loro rendeva incomprensibile il senso di ciò che io faccio.
            Chiudo con una domanda: ma a cosa serve un’associazione ombrello?

          • Giorgio Giacometti

            [Una nota tecnica: Neri, il tuo ultimo commento al mio intervento non mi permette di commentare ulteriormente, quindi “posto” qui la mia replica (come se commentassi autoreferenzialmente me stesso!); ma avverto che si tratta, appunto, di una replica a quanto scrivi qui sotto]

            Correggo quanto detto sopra: contraddistinguere la mia prospettiva come accademica non è caricaturale, è incomprensibile o, nel caso migliore, frutto di un equivoco.

            In nessuna mia presa di posizione suggerisco che la pratica filosofica abbia qualcosa a che fare con dottrine filosofiche o con forme di filosofia “pratica” (p.e. di filosofia morale, politica o giuridica) o di filosofia “applicata”. Al contrario, nel libro “Platone 2.0” (che Augusto Cavadi ha avuto la compiacenza di ribattezzare “Contra academicos”) come altrove, mi scaglio contro la filosofia accademica e anche scolastica (intesa come pretesa filosofia che si traduce nell’elaborazione di dottrine comunicabili per via di scrittura), sostenendo che non si tratti neppure di filosofia in senso stretto (e ti assicuro che è quello che dico quando a scuola presento p.e. Platone: “Ragazzi, quella che facciamo a scuola non è filosofia, ma solo lo studio della storia del pensiero”), ma si tratti, citando Achenbach, soltanto di una “luogotenente” della vera filosofia; in quanto la “vera” filosofia, nella mia ricostruzione, sarebbe solo quella che oggi chiamiamo “pratica filosofica” ossia l’attività del filosofare nella forma del dialogo orale.

            Soltanto: io sostengo che vi sono molti diversi modi in cui oggi noi possiamo esercitare tale attività. Questi modi sono legittimabili non sulla base delle “dottrine” del passato, ma sulla base dei “metodi” con cui quelli che chiamiamo filosofi hanno filosofato.

            E’ accademismo evocare filosofie (intese come forme del filosofare, non dottrine) del passato? Ma anche tu evochi il passato recente, quando legittimi il tuo approccio sulla base di quella che chiami “svolta pratica”.

            Forse io sbaglio perché evoco filosofi che non esercitavano la loro attività in forma professionale, mentre tu ti legittimi sulla base di filosofi che hanno inteso esercitare la filosofia come professione (a cominciare da Achenbach per continuare con… te stesso)? Ma quando Achenbach ha iniziato a esercitare la sua attività come professione non si è ispirato a un pre-Achenbach professionista, ma direttamente a Socrate. Perché a Socrate e non a Freud? Perché il primo è “tradizionalmente”, storicamente considerato filosofo e il suo approccio (non la sua dottrina!) è considerato tipicamente filosofico. Perché anch’io non posso fare altrettanto? E perché altri non possono trarre indicazioni metodologiche dall’ermeneutica di Gadamer o dalla pratica delle “quaestio” medioevale ecc.? Farebbero accademia? Invece non sarebbe accademico passare attraverso la cruna dell’ago (i “dogmi” metodologici) di Achenbach o magari di Pollastri?

            In ogni modo, anche a voler prendere le mosse dalla “svolta pratica”, perché si dovrebbe seguire proprio il “processo” che tu così analiticamente hai tratteggiato (da farne, secondo me, contro le tue intenzioni, un metodo)? Molti altri che, ispirati dalla “svolta pratica”, praticano la filosofia in forma dialogica e non si sognano di insegnare dottrine seguono, come ben sai, vie molto differenti (penso a Moreno Montanari, allo stesso Stefano Zampieri ecc.), anche molto più differenti dalla tua di quella che seguo io, come sai, che, in definitiva, sono molto “pollastriano” di altri nel modo di lavorare (senza empatia, con una certa direttività e propositività ecc.) la visione del mondo dei miei consultanti. Sono tutti in errore e solo tu segui il magistero di Achenbach? Andiamo…

            E’ “accademia” proporre una liberalizzazione metodologica ed epistemologica, un pluralismo, come quello che quell’articolo di “Repubblica” documenta? Tale pluralismo, come ben sai, non è la conseguenza dell’influenza perniciosa del Giacometti-pensiero sui praticanti la filosofia (Dio ce ne scampi), ma un dato di fatto di cui prendere atto, perché, come insegnerebbe il tuo amico Hegel, essendo “reale” ha una sua intrinseca “razionalità” (l’intrinseca dialetticità del filosofare, che anche l’articolo citato richiama, sia pure per lamentarne gli effetti).

            Se non vogliamo essere “accademici”, ma veri professionisti, nello scegliere il nostro approccio al filosofare, quello che dovremmo fare è non sacralizzare né Platone, né Achenbach, ma provare a rispondere a ciò che fa di una professione una professione reale: la domanda del mercato. Il richiamo “accademico” alla storia della filosofia (intesa come storia dei metodi filosofici, non delle dottrine) è semplicemente un criterio di legittimazione, di cui ti vali ampiamente anche tu, come si valeva Achenbach, per non venire accusati di fare dell’altro.

            (L’associazione ombrello o meta-associazione o associazione meta-filosofica in questo quadro assolverebbe una funzione fondamentale: non essendo possibile, ammesso che fosse desiderabile e avesse un senso filosofico, comprimere il pluralismo e imporre qualche tipo di dogmatismo, l’associazione veglierebbe sulla coerenza delle proposte epistemologiche e professionali dei filosofi professionisti, sulla congruenza tra quanto da loro teorizzato e quanto praticato, sulla chiarezza e non ambiguità, nei limiti del possibile, della loro presentazione ai potenziali clienti, sulla mancata violazione di elementari principi deontologici e leggi dello Stato ecc.; essa promuoverebbe in ogni caso la professione evitando innanzitutto che i clienti cadano nell’equivoco di immaginare che i filosofi praticanti siano tutti uguali e lavorino nello stesso modo).

          • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

            Caro Giorgio, i software sono talvolta più equilibrati degli umani: non possiamo ripetere qui il rito perverso che abbiamo messo in scena altrove, per cui procediamo in privato, se credi. Chiudo dopo la tua ultima replica osservando che sei così tanto dentro la tua lettura storico-accademica (che l’assurda riduzione all’oralità della filosofia, quasi che il discorso segua regole diverse a secondo della forma fisica della sua espressione, non fa che confermare) da non renderti conto che ogni tuo intervento, lungi da essere una interlocuzione a quel che sto dicendo, la ribadisce. Ma, ripeto, per esplicitare questa replica volutamente apodittica e sibillina proseguiamo in privato.

  • Fabio

    Buonasera a voi e grazie per questa discussione che mi sembra manifestare bene le problematiche in cui continua a rimanere invischiata la consulenza filosofica. Mi permetto di intervenire soltanto per chiedere a Neri Pollastri la cortesia di continuare pubblicamente la discussione da lui iniziata e pubblicizzata. Mi sembra che Giorgio Giacometti colga nel suo ultimo intervento punti importanti e decisivi a cui mi farebbe piacere leggere una risposta altrettanto chiara. Vi ringrazio, buona serata.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Caro Fabio, grazie per l’intervento, rivelatore del fatto consolante che qualcuno segue la discussione. Che proseguirò senz’altro, ma non nelle forme prese ultimamente, sia perché è vistosamente deragliata rispetto al tema di partenza, sia – soprattutto – perché gli ultimi interventi hanno saltato non pochi passaggi, presupponendo contenuti che andrebbero condivisi e discussi a fondo prima di andare avanti: per esempio il libro di Giacometti, quasi mille pagine che non so quanti abbiano letto e che quindi non posso neppure limitarmi a valutare in una discussione seria con le poche parole che ho usato, o il mio lavoro sul “processo”, citato da Giorgio ma di fatto inedito e noto solo a trentina di persone in Italia. E che d’altronde fa corpo con un paio di altri miei lavori di analisi e riflessione, anch’essi inediti e in questo caso sconosciuti allo stesso Giorgio. Ragioni sufficienti, mi pare, per riprendere il discorso con maggior ordine dal punto in cui era rimasto interrotto prima della “divagazione” degli ultimi post.

      • Giorgio Giacometti

        Su una cosa concordo con Neri (direi più di quanto Neri non concordi con se stesso… lo si prenda come una battuta, altrimenti si riapre la discussione!), cioè che, nonostante qualche somiglianza tra il “dialogo” a suon di “post” e il dialogo orale (che io considero fondamentale per il filosofare, non per il mezzo vocale che adopera, ovviamente – Neri -, un lungo monologo equivale a un libro, ma perché rende possibile il dia-logo come tale), siamo qui molto lontani da quel filosofare che può mettere in discussione anche se stesso, come è possibile in una genuina pratica. Inviterei, pertanto, Fabio e altri lettori, prima ancora di leggere il mio enorme libro o gli scritti di Neri, a sperimentare la filosofia come pratica, magari proprio con lo stesso Neri e con il suo “filosofare fuori le Mura”. Ad onta di quello che si potrebbe credere la mia stima per Neri, come filosofo praticante (e come mio maestro, sotto questo profilo), resta immutata. L’esperienza del fare filosofia con lui o con altri è altamente raccomandabile (non dico perché lo è, altrimenti Neri mi bacchetta di nuovo…)

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Giorgio, c’è già abbastanza confusione anche senza che ti metta a costruire “Pollastri di paglia” con i quali giocare alla faccia dei Pollastri reali. Il sottoscritto ha sempre sostenuto che:
          a) un libro di ricerca non è un monologo ma la testimonianza scritta di un dialogo tra il suo autore e molti interlocutori che si sono occupati della materia di cui parla, testimonianza che è a sua volta una voce in un dialogo sempre in corso;
          b) che un libro di ricerca filosofica mira sempre a mettere in discussione se stesso; in caso contrario è un libro di saggistica dottrinaria;
          c) che la filosofia fuori dalle accademie è strutturalmente identica a quella che si fa dentro le accademie, l’unica differenza è che la si fa perlopiù con non filosofi – si noti: solo ed esclusivamente perché fuori delle accademie i non filosofi sono incomparabilmente più numerosi dei filosofi;
          d) che perciò il modo migliore per capire cosa sia la consulenza filosofica sia fare una tradizionale ricerca filosofica teoretica su un tema qualsivoglia (vanno benissimo anche “Il concetto di caso nella meccanica quantistica” o “L’aporia dialettica tra analitico e sintetico”), facendosi poi solo spiegare brevemente come quel lavoro si ripeta in un contesto consulenziale;
          d) che per chi voglia imparare come fare consulenza filosofica (e ciò vale anche per altre forme di filosofia fuori le mura) è del tutto INUTILE, anzi persino CONTROPRODUCENTE, sperimentare l’esperienza senza avere prima una chiara e ben delineata “concezione” di cosa sia ciò che va a sperimentare.
          Il Neri di cui parlavi pertanto non sono io. E’ un nome raro, strano che tu mi confonda con un altro, ma tant’è. Stai più attento.

          • Giorgio Giacometti

            Forse non hai letto con attenzione il mio post o mi sono espresso male. La tesi che per comprendere la filosofia occorra farla è MIA (me ne assumo l’intera responsabilità) e non di un Neri reale o di paglia. So bene quello che pensi e che hai brevemente riassunto qui (e che continuo a non condividere). L’invito a Fabio a seguire il tuo incontri (credevo che ti facesse piacere, ma, anche se non ti fa piacere, lo ribadisco) invece che continuare a leggerci è sempre mio. Il mio “accordo” con te si riferiva soltanto al fatto (al quale evidentemente non siamo in grado di attenerci) di non continuare la nostra discussione in questa sede, annoiando o confondendo, come giustamente scrivevi anche tu, chi ne ignora le complesse premesse. Un caro saluto!