Un ottimo libro sulla Consulenza Filosofica


Miccione lezioni privatedi CF

Dopo anni in cui i nuovi libri sulla consulenza filosofica erano frequenti (anche se spesso incoerenti, quando non inconsistenti), da un po’ di tempo la vena sembra essersi esaurita e non si vede più uscire granché, né di italiano, né di straniero. Ragione di più per salutare con soddisfazione il nuovo lavoro di Davide Miccione, Lezioni private di consulenza filosofica, uscito da qualche mese per Diogene Multimedia (106 pagone, € 9,80).

Miccione è uno degli interpreti italiani più acuti, antichi e prolifici della pratica (il suo primo libro in materia, La consulenza filosofica, uscì per Xenia nel 2007, ma un suo articolo, “Il frantoio di Talete”, era già nel primo numero della rivista “Phronesis”, del 2003), e ha al suo attivo quello che può essere considerato il miglior studio sulla cosiddetta “svolta pratica” della filosofia, Ascetica da Tavolo. Pensare dopo la svolta pratica, edito da IPOC ma a breve in ristampa proprio per Diogene Multimedia. Questa sua ultima fatica è un libro singolare: piuttosto breve (diciamocelo, anche questo è un bel pregio) e ricco di acutissime considerazioni di dettaglio, è scritto in uno stile conversazionale e parla esplicitamente di “aspetti privati” della consulenza, vale a dire di esperienze vissute in prima persona e di aspetti teorici messi a fuoco attraverso di esse; cose che, spesso, non riuscirebbero a trovar spazio in un “manuale” o in un “trattato” ma che, invece, riescono forse a spiegare in modo più chiaro le ragioni di certi tratti definitori della pratica.

L’importanza degli aspetti “privati” viene spiegata indirettamente nell’introduzione, dove Miccione narra il modo curioso in cui io e lui ci siamo conosciuti nell’ormai lontano 2001, dando il “la” a una collaborazione e – ancor più – a un’amicizia che da allora non hanno avuto pause. Lascio al lettore il piacere di scoprire da solo quella vicenda, alla quale voglio solo aggiungere un altro dettaglio “privato” e cioè che in realtà io e Davide siamo persone diversissime: per carattere, per interessi extrafilosofici, per storia personale e – non ultimo – per formazione e frequentazione della stessa cultura filosofica. Ciò che è stato importante nella mia formazione e resta per me centrale (la logica argomentativa, la metaetica, il pensiero anglosassone, Hegel, Dilthey, Feyerabend, Quine) lui non lo ritiene rilevante e talvolta fatica a sopportarlo; per converso, quel che lo è stato e resta per lui (la filosofia spagnola, Nietzsche, Schopenhauer, Sgalambro, la Zambrano) non lo è per me, anzi spesso sono io a sopportarlo a fatica. Ciononostante ci capiamo benissimo e, nella stragrande maggioranza dei casi, concordiamo su analisi e valutazioni (sulla consulenza filosofica, ma anche sulla filosofia tout court, sulla politica, sulla società, ecc.) perché – evidentemente – condividiamo qualcosa che riguarda il nostro comune esser filosofi e che va aldilà della personale (e, filosoficamente, sempre precaria) adesione a questa o quella “dottrina” di qualche pensatore del passato. Questo è il “pluralismo” che dovrebbe caratterizzare le comunità di filosofi: legati dal dubbio e dalla critica, sebbene – molto in subordine – divisi dall’adesione a qualche contenuto, in quanto tale sempre a rischio di divenir dogma se non “reso fluido” dall’atteggiamento del filosofo.

Queste cose Miccione le illustra con chiarezza e gustosa ironia nel suo libro. Per esempio quando nella “terza lezione” osserva come il consulente filosofico (o il filosofo, dato che fanno lo stesso mestiere, ancorché in condizioni di eseguibilità diverse) «deve lasciarsi attraversare in qualche modo dalle posizioni avverse, meditarle, esperirle, non irrigidirsi nella paura di perdere la propria identità, perché essa, se c’è, ci aspetta alla fine di tutto e non è un bagaglio da trascinarsi ansiosamente lungo la strada» e pertanto «sa anche che pensare seriamente qualcosa senza prendere sul serio il suo contrario è impossibile» (44-45). Questo significa, prosegue Miccione, che «noi che abbiamo la filosofia al centro delle nostre vite (non la tecnologia, il profitto, la performance, la bellezza, la comunità ecc. ma la filosofia)» non siamo altri «se non coloro che mettono in dubbio» (50).

Su questa decisiva caratteristica forse però non concorderebbe ogni consulente filosofico, se è vero che – come osserva lo stesso Miccione – si tratta di un soggetto «tremendamente esposto» a una sorta di «“praticizzazione” del pensiero (…). Egli cerca un metodo, pensa di dover “applicare” conoscenze» (72), così che perfino «fa o vuole fare altro, come fine del suo agire filosofico e non come effetto collaterale (vuole far star meglio l’altro, trasmettere saggezza, difendere i valori dalle offese dei tempi ecc.)» (41). Ebbene, afferma senza riserve Miccione, chi fa questo «si è solo confuso sulla sua identità e sul suo ruolo. Cosa in sé non grave ma peccato mortale per un filosofo» (41). Qual risposta migliore a tutti coloro che cercano cocciutamente di trasformare la figura del filosofo, ancorché consulente, in un “professionista dell’aiuto”, in un educatore, in un modello di comportamento virtuoso, in un procacciatore conto terzi del famigerato benessere?

È per questa caratteristica fondante della consulenza (e della filosofia) – mettere costantemente in dubbio – che «la migliore dimostrazione della [sua] forza» la si ha quando capiti di vedere «persone contraddette e smontate nelle loro tesi (che in qualche misura facevano corpo con le loro azioni) e dopo un attimo di sconcerto ringraziare del miglioramento implicito nel veder crollare delle tesi deboli» (49-50), cosa successa anche a lui (e a me, aggiungo io). E, all’inverso, è per questo che «il consulente smette di essere tale» allorché non riesce a «ripensare daccapo la questione» ma «può parlarne solo in un’ottica di difesa e di trasferimento di una dottrina previa» (comportamento del quale l’autore offre un breve ma interessante elenco di esempi “presi dal vero”), cosa che rende impossibile l’offerta di «piena libertà della pensabilità di ogni cosa» (53), che è poi proprio ciò per cui un consulente filosofico può essere utile. E questo perché – osserva Miccione discutendo l’annoso problema della “formazione” alla consulenza filosofica – i consulenti non devono essere “esperti” dotati di “competenze” da “applicare”, bensì «individui che siano filosofi, (…) nel senso assicurato dalla svolta pratica, in quanto in grado di dare uno sguardo filosofico sul mondo e consapevoli di farlo, di esporsi all’occasione di pensare» (73), di «riconoscere la disponibilità a sbagliarsi, a modificare le proprie teorie, a trovare nel mondo un interessante repertorio di occasioni di pensiero, a non aver bisogno di dogmi per sorreggersi nonché a non fare dell’assenza di dogmi un dogma» (74). Che poi, a ben guardare, è proprio quel che dice Acehnbach nel suo – tanto negletto, quanto fondamentale – Saper vivere (Apogeo, Milano 2006).

Questa è la posizione fondante della consulenza filosofica, perché fondante anche della filosofia in quanto processo – «la filosofia dopo la svolta pratica “è processo” e non “predilige il processo” come chiave della realtà; è essa stessa pratica, non preferisce la pratica alla teoria», scrive Miccione a p. 83, riassumendo “in pillole” il suo precedente libro Ascetica da tavolo – e da essa segue anche che «non ci sono filosofie né filosofi imprescindibili per essere un consulente filosofico, non ci sono filosofi la cui conoscenza cioè sia condizione necessaria o sufficiente per l’esercizio della disciplina» (57). Infatti, «il consulente può allocarsi dove vuole, ma deve però sapere dove si trova e come c’è arrivato, meglio ancora se abbia riflettuto anche sul perché altri siano finiti altrove. Ma sapere dove ci si trova significa aver pensato seriamente, almeno una volta, di poter andare altrove» (61). L’unica cosa che il filosofo consulente non può e non deve fare è «nascondersi, o travestirsi da uomo di buon senso» (64), perché la filosofia è giustappunto la messa in dubbio del “buon senso” e il filosofo – come consigliava Manlio Sgalambro a Miccione – «ha il dovere di spararla grossa, di esagerare», proprio perché la conciliazione, la mediazione, il consenso non favoriscono la messa in dubbio, la critica, l’esplorazione approfondita di alternative radicali e perciò “scandalose”, come quelle che appunto Miccione elenca tra gli esempi di temi sui quali neppure i suoi colleghi consulenti sono stati disponibili a seguirlo sperimentalmente.

Il problema più profondo che soggiace a questa indisponibilità, così come alla reiterata tendenza dei consulenti filosofici a trasformare la loro pratica in qualcosa d’altro dal mero filosofare, è che «il consulente spesso fa filosofia ma non crede in essa perché si è abituato a coltivarla come un vizio e non a lucidarla come un’arma; non ritiene che lo sguardo filosofico sia essenziale», finendo così per oscillare «tra uno sguardo pragmatico e uno psicologico», cosa che gli rende gravoso fare consulenza (64). E – sembra il caso di aggiungere – anche inutile.

Ho fuggevolmente accennato al fatto che in una delle sue “lezioni private” Miccione riassume “in pillole” il suo Ascetica da tavolo, un lavoro che chi si occupa del settore non può non aver letto; la sintesi fatta qui dall’autore può tuttavia esser utile a comprendere meglio quel testo denso e, soprattutto, a tenerlo a mente ogniqualvolta ci si trovi ad affrontare la comprensione dei postulati che sorreggono la cosiddetta “svolta pratica”, nata con Lipman, compiuta da Achenbach e poi purtroppo equivocata e infine sgretolata da gran parte di coloro che si sono dopo di loro avvicinati alla “filosofia fuori le mura”. Quella “lezione” – la sesta – merita perciò un’attenzione particolare.

Così come la merita la lezione conclusiva, dedicata all’inesauribile tema delle “definizioni”. Un tema che Miccione bistratta un po’ (ma è vero che per molto tempo, da parte di tanti, è stato affrontato con piglio “scolastico”), prima di riconoscere che, comunque, pur non mettendola «sulla carta», lui come chiunque altro una definizione, giocoforza, la utilizza mentalmente. Dopodiché ce la offre e – soprattutto – ce la glossa, così da chiarirne alcuni aspetti ambigui – quelle ambiguità che in altre definizioni sono rimaste lì, minando negli anni accordi tra colleghi che erano solo apparenti e si sono poi trasformati in divisioni conflittuali. Ed è infatti sulle glosse che, personalmente, trovo un accordo che mi sarebbe rimasto dubbio alla lettura della semplice definizione, e ad esse rimando il lettore.

Alla fine, come sapevo, mi resta un solo disaccordo sulle cose che scrive Miccione e riguarda il tema della “professione”, che a mio personale giudizio egli trascura, o meglio sottostima. Prima nella lezione iniziale, “Pensiero unico, forse neanche quello”, dove passando in rassegna con acume e ironia le molte posture esistenziali della contemporaneità, sempre incoerenti e spesso irragionevoli fino alla surrealtà, conclude – con un ottimismo che non gli riconosco – che non ci sia affatto da dolersi dello scarso successo della pratica come professione, ma anzi ci sia da gioire con meraviglia del fatto che «una seria pratica della filosofia sia ancora viva, che qualcuno vi si dedichi e che qualcuno paghi per farla» (34). Poi nelle conclusioni, affermando il suo scetticismo rispetto al fatto «che la sua professionalizzazione sia (…) sostanziale e non accidentale per la sua definizione» (104) e giustificandolo, a me sembra, un po’ alla buona. Perché non c’è dubbio che «la filosofia è un’altra cosa» rispetto alle norme, alla burocrazia e alla necessaria «politica della consulenza filosofica», ma è anche vero che la filosofia è “il nostro tempo espresso in pensieri” e se nel nostro tempo ogni uomo, in quanto cittadino, vive del contributo offertogli dagli altri per quel che “professionalmente” fa per loro, è necessario anche capire come, perché e con quale legittimità il “filosofo” debba essere retribuito per quel che fa “professionalmente” in quanto filosofo. A meno che non si concluda che egli debba necessariamente fare altro per vivere – il cameriere, il muratore, l’operatore finanziario non meno che l’insegnante – cosa che però lo metterebbe, come dice Achenbach, in una posizione di minorità anch’essa bisognosa di una giustificazione. «Ognuno che voglia capire e pensare filosoficamente» scrive Miccione a metà del libro «cerca sempre questa giusta distanza con il mondo e con il tempo in cui vive» (49): è il caso allora che la cerchi anche rispetto alle regole, alla burocrazia e al denaro che gli si riconosce per il proprio agire. Ma questo è un tema in discussione (forse da troppo tempo e forse perciò parte attiva del mancato sviluppo della pratica) su cui ci sarà occasione di tornare in futuro.

 

 

 

 

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