Confondere la prassi col pragmatismo e uccidere la consulenza. L’esempio di un libro 6


Non sono ormai più molti gli studi specifici sulla consulenza filosofica, in Italia ma anche nel resto del mondo. E, purtroppo, i pochi che vedono la luce mostrano quanto questo settore sia privo di una coesione e di una cooperatività che possa donargli coerenza e, magari, anche qualche esito condivisibile e condiviso, condizione essenziale perché l’attività esca dal limbo e possa proporsi al grande pubblico senza quelle ambiguità e contraddizioni che l’hanno fin qui penalizzata.

Leggendo il libro di Chiara Castiglioni, Filosofia dentro (Mursia 2017), non si può che aver conferma di questo stato di cose. Non perché il libro manchi di qualità, sia chiaro: l’autrice – che ha anche un curriculum di tutto rispetto come filosofa sia “accademica”, sia “pratica” (ma su questo aggettivo torneremo) – mostra di padroneggiare bene ampi settori della storia della filosofia antica e moderna, propone interessanti letture dell’uomo collegando pensatori di epoche e ambiti diversi, e soprattutto resoconta importanti esperienze vissute in prima persona in realtà complesse quali sono i carceri. Il problema, però, sta nel fatto che tuttociò si accompagna a inesattezze e confusioni terminologico-concettuali che producono più volte vere e proprie contraddizioni argomentative, riflettendosi inevitabilmente – come sempre più spesso avviene, purtroppo – anche sulla interpretazione di quelle esperienze.

Com’è noto, “consulenza filosofica” è un’espressione coniata vent’anni fa per denominare in Italia la Philosophische Praxis di Gerd Achenbach, figura che infatti anche l’autrice del libro tiene in considerazione e cita più volte. È noto anche che tale attività fu fondata da Achenbach per far sì che si potesse esercitare anche tra non specialisti la Praxis della filosofia – vale a dire la sua prassi, la sua procedura – partendo dalle loro “domande senza risposta” e non da quelle che si pongono usualmente i filosofi; questo spiega anche perché Achenbach non abbia mai parlato di “obiettivi pratici” della sua attività: perché Praxis indicava la prassi e non la pragmaticità. È per questo motivo che, pur facendo uso a scopo esemplificativo o argomentativo dei pensieri di vari filosofi, Achenbach ha sempre dichiarato che la fondazione della Philosophische Praxis non potesse far riferimento a nessuno di essi: infatti, la procedura del filosofare accomuna tutti i filosofi, essendo ciò che ha permesso a ciascuno l’elaborazione di teorie sul mondo e sull’uomo spesso ampiamente divergenti, cosicché appoggiarsi a qualcuna di queste teorie per costruire uno spazio in cui esercitare la prassi comune significherebbe già pregiudicarne il percorso, orientandolo surrettiziamente verso determinate direzioni e rendendo impossibile il suo dirigersi verso altre. Ed è ancora per questo che Achenbach ha sempre escluso che nella Philosophische Praxis si trattasse di “applicare teorie”: perché la sua è una mera proceduralità filosofica, cioè pura teoresi priva di altri obiettivi che non siano conoscere e produrre teorie (sebbene a partire dal caso singolo), com’è del resto proprio dell’attività di un filosofo, mentre l’applicazione presuppone l’assunzione di teorie già pronte all’uso, cosa propria magari della Applied Philosophy (che non a caso la Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis ritiene esplicitamente cosa ben diversa, come dichiarato alla International Conference del 2010 in Olanda), ma non della Praxis filosofica, che le teorie le produce ex novo.

Che la teoresi, condotta come pura ricerca di conoscenza e in maniera del tutto svincolata da intenzioni strumentali, abbia poi ricadute pragmatiche (aggettivo che per chiarezza sarebbe sempre meglio usare al posto dell’ambiguo “pratiche”) i filosofi lo sanno almeno dall’epoca di Socrate – a nuove teorie sulla realtà seguono necessariamente nuovi modi di agirvi – sebbene tendano spesso a dimenticarlo, mentre i non filosofi di solito persino lo ignorano; non a caso, uno degli obiettivi che Achenbach si prefiggeva nel dar vita alla Philosophische Praxis, ovvero a ciò che dal 1999 in Italia chiamiamo Consulenza Filosofica, era giustappunto mostrare a una platea più ampia degli specialisti l’importanza concreta della teoresi.

Se alla luce di tutto questo andiamo a leggere Filosofia dentro, scopriamo anzitutto – e con sorpresa – che la sua autrice usa in modo confuso, quasi sinonimico, i termini “filosofia”, “pratica filosofica”, “filosofia pratica”, “filosofia applicata”, “consulenza filosofica” e “counseling filosofico”. Riguardo agli ultimi due, è sconcertante che Achenbach venga definito «fondatore del counseling filosofico», visto che in Italia la distinzione è sempre stata ben chiara (anche se spesso mal utilizzata), attestata da un quindicennio di pubblicazioni e dall’esistenza per un analogo tempo di due associazioni dedite in modo esclusivo alle rispettive pratiche, e che anche il Presidente della Internationale Gesellschaft für Philosophische Praxis abbia plaudito all’uso italiano, potenzialmente importante per dirimere le controversie che esistono anche in ambito internazionale – dove ormai da quasi un decennio c’è una sostanziale divisione de facto tra la tedesca Philosophische Praxis e l’anglosassone counseling filosofico. E se sulla “filosofia applicata” già dicevamo, anche l’ambiguità tra “pratica filosofica” e “filosofia pratica” appare piuttosto grave: la prima infatti rimanda alla proceduralità della filosofia, alla sua teoresi (oltre alla storia del “movimento delle pratiche”, si veda anche Carlo Sini, Filosofia e scrittura, Laterza 1994), mentre la seconda ha una tradizione “accademica” che risale ad Aristotele (in proposito si veda Enrico Berti, Filosofia pratica, Guida 2004), che nulla ha a che fare con il movimento nato con Lipman e Achenbach. Usare in modo confusamente sinonimico questi termini (a parte la tendenza a riservare “consulenza” e “counseling”, indifferentemente, per le relazioni individuali) è da un lato scientificamente scorretto, dall’altro assai deleterio per le varie pratiche, ciascuna delle quali finisce per apparire caratterizzata da approcci, finalità e modalità operative che appartengono invece ad altre.

Ed è proprio sulle caratteristiche che la descrizione dell’autrice si fa fortemente problematica, soprattutto per due motivi: perch’essa, come molti altri, mostra urgenza di fare della prassi filosofica qualcosa che abbia immediati effetti pragmatici, scadendo così nella filosofia applicata e nella strumentalizzazione della filosofia, e perché nel farlo pesca a piene mani nei riferimenti ai filosofi del passato per definirne lo spazio di lavoro.

Troviamo così l’autrice affermare che la filosofia/filosofia pratica/filosofia applicata/consulenza/counseling filosofico avrebbe il compito «di aiutarci a riconoscere e ricomporre l’unità della “moltitudine” (per riprendere Pessoa) che siamo e che viviamo» (33), di «condurci a costruire una narrazione del sé il più possibile organica» (37), di «trascendere il nostro perimetro e aprirci a più grandi orizzonti di realtà umana» (44, ma è una citazione di Ran Lahav), di «promuovere la trasformazione della persona a partire da un lavoro sulle visioni del mondo» (prendendo però a prestito il concetto di “visioni del mondo” elaborato da Jaspers); e ancora, essa sarebbe «la cura dell’unità armonica della persona e del suo contatto con l’infinito dentro di sé e fuori di sé» (33, con riferimenti anche alle “filosofie” orientali), o anche «pratica del riconoscimento» (29, è il titolo del primo capitolo, nel quale abbondano i riferimenti a Ricoeur e Buber), «espressione e cura di sé» (40, a sua volta titolo di un paragrafo nel quale vi sono ampi riferimenti a Jaspers e Heidegger), persino «atto di amore e di ospitalità universale» (20, ma è il titolo del quinto capitolo del libro, in cui troviamo riferimenti a Simone Weil, Raimon Panikkar, Eugenio Borgna, persino Madre Teresa di Calcutta). Addirittura, in essa sarebbe lecito utilizzare anche gli esercizi spirituali proposti da Pierre Hadot, ripresi da scuole filosofiche antiche e frutto delle forme di saggezza da quelle elaborate. E si potrebbe andare avanti, sviluppando un’analisi puntuale che qui non faremo.

Ora, aldilà delle imprecisioni terminologiche, tutta questa lettura può certo andar bene per dare un fondamento colto alla specifica e personale attività che la Castiglioni svolge in carcere: ognuno ha infatti il diritto di avere il proprio modo di intendere l’uomo e la società, la filosofia e la vita buona, così come di agire nel mondo con finalità a esso commisurate; specificarlo e giustificarne i fondamenti – come fa la Castiglioni, ma anche il da me stimatissimo Giuseppe Ferraro, spesso citato nel libro – è atto meritorio. È invece fortemente problematica se, anche solo per l’ambiguità dei termini, la si avvicina alla consulenza filosofica: la moltitudine sia di “compiti” e “obiettivi” assegnati all’attività (tutti lontani da quelli della proceduralità del filosofare, che è solo quello di comprendere la realtà e produrre nuove teorie su di essa), sia dei riferimenti a pensatori fatti per giustificarli, danno infatti già luogo a una determinata visione del mondo, includente un’idea dell’uomo (la sua finitudine, l’aspirazione alla trascendenza, la necessità del riconoscimento, l’importanza dell’amore, ecc.), una selezione prioritaria di valori, una concezione della convivenza civile, e via dicendo. Di più: quella fondazione dell’attività pregiudica persino l’idea stessa di “visione del mondo”, visto che – tra le tante – assume quella dello Jaspers di Psicologia delle visioni del mondo, la quale – con tutto il rispetto per un autore di grande valore – è adatta per la psichiatria fenomenologica, ma è viceversa troppo stretta e tipizzata per poter essere accolta dalla consulenza filosofica.

La cosa si fa stridente laddove si arriva ad affermare che «la nostra idea di consulenza e pratica filosofica fa riferimento anche alla prospettiva filosofica di Hadot e si ispira ad alcuni degli esercizi spirituali [da lui] proposti» (51): ad Hadot l’autrice si potrà certo ispirare per la propria idea di pratica filosofica, non per quella di consulenza filosofica, perché se è vero che l’autore francese ha contribuito a guardare alla filosofia in modo non strettamente accademico, la sua idea di “pratica filosofica” è tuttavia incompatibile con quella della Philosophische Praxis/Consulenza filosofica e, più in generale, con le “pratiche filosofiche moderne” nate con Lipman. Gli esercizi spirituali hadotiani e anche la sua specifica idea di “filosofia come stile di vita” non hanno infatti a che fare con il filosofare come processo teoretico critico e creativo, bensì con l’applicazione di concezioni del mondo e dell’uomo elaborate da filosofi del passato e pronte all’uso. Una cosa che vale anche per i non dissimili esercizi proposti da Ran Lahav, il quale peraltro ha da tempo posizioni critiche nei confronti della consulenza filosofica, che considera (sua comunicazione personale, fatta tuttavia anche ad altri) “nient’altro che psicoterapia”. A ragione, direi, se la si considera, come qui, un lavoro «sull’ampliamento del nostro sguardo sul reale, per poterci evolvere e per risolvere eventuali problemi legati spesso proprio al nostro modo rigido e/o bloccato (per paura, ansia, sensi di inadeguatezza, ecc.) di vedere il mondo» (45): una prospettiva di tipo psicologico, perché rende i nostri “problemi” frutto di stati emozionali (quali sono la paura, l’ansia, ecc.), e di tipo terapeutico, perché pretende di agire sul pensiero per “risolverli”; un rovesciamento della prospettiva filosofica, che subordina gli stati psicologici alla qualità del modo in cui vediamo il mondo, invece che considerarli “blocchi” a vederlo in modo diverso.

Se si intende la consulenza filosofica in questo modo, come uno strumento per ottenere fini pratici (o meglio pragmatici), non si travisa solo quell’attività, ma la filosofia stessa: perché farlo comporta da un lato – come affermano da sempre molti filosofi, inascoltati perché considerati “accademici” – una strumentalizzazione e mercificazione della filosofia, che viene usata per un fine pratico e venduta per quell’uso, dall’altro la sua riduzione a mera antropotecnica – per usare un termine di Sloterdjik – ovvero a esercizio per “cambiare la propria vita”. Ma la filosofia non è questo: non lo è mai stata, né era intenzione di chi ha dato vita alla Philosophische Praxis/Consulenza filosofica trasformarla in strumento per il cambiamento, ovvero in antropotecnica. Per Achenbach (e in certa misura anche per il sottoscritto, che esercita la professione da vent’anni) la consulenza filosofica è puro filosofare e il suo fine è esclusivamente comprendere e teorizzare; la differenza dalla filosofia accademica non è il suo essere pratica/pragmatica (del resto, lo è anche quest’ultima, come sa chiunque abbia studiato con profitto), bensì solo che il “libro” – da leggere e da scrivere – è una persona in carne e ossa, e collabora attivamente con il filosofo.

A scanso di altre incomprensioni, giova ripetere dove stia il problema: se la consulenza filosofica vuol essere, come precisato fin dalla sua origine, un “libero dialogo” nel corso del quale «l’ospite non verrà addottrinato, non gli verranno cioè date in pasto parole intelligenti, né gli verranno servite “teorie”» (Achenbach, La consulenza filosofica, Apogeo 2004, p. 14) e «non viene compreso mediante teorie – cioè schematicamente – né come “caso di una regola”, ma piuttosto come ciò che lui stesso è: unico» (ibidem), se essa si delinea – come afferma la stessa Castiglioni – «come arte della domanda più che come dispensatrice di risposte e certezze, un viaggio e un’esplorazione libera degli infiniti mondi possibili» (21), allora come si può pensare di costruire lo spazio in cui essa si svolge attingendo ad alcuni di quei mondi? Essi definiranno lo spazio in modo troppo angusto e predisporranno occultamente sia le direzioni in cui si dirigerà il dialogo, che diverrà così assai meno libero, sia le risposte che da esso emergeranno. Sarà così impossibile che l’ospite possa elaborare, assieme al filosofo, la sua propria, unica visione del mondo quando quest’ultima cozzi radicalmente con quella assunta a fondamento della pratica.

In conclusione, viene davvero da chiedersi come sia possibile che una persona che svolge un lavoro comunque culturalmente e socialmente interessante all’interno dei carceri e che mostra una buona competenza in materia di saperi filosofici, non usi con la stessa attenzione la terminologia del settore e con la stessa perizia l’analisi riflessiva sul proprio agire. Ma, come dicevo in apertura, non si tratta di un caso isolato, bensì di un fenomeno diffuso a macchia d’olio, frutto del pessimo livello dell’informazione (e della formazione) nel settore, ma anche della scarsa disponibilità di chi vi opera a studiarlo con attenzione e in modo collaborativo e condiviso. I risultati si vedono: dopo vent’anni una pratica così potenzialmente importante stenta ancora ad affermarsi.


Rispondi a Neri Pollastri Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

6 commenti su “Confondere la prassi col pragmatismo e uccidere la consulenza. L’esempio di un libro

  • GIORGIO GIACOMETTI

    Potrei “divertirmi” a difendere il lavoro di Chiara Castiglioni, che, tuttavia, non ho letto (facendole, quindi, un torto, mentre sembrerei farle un favore), proseguendo il gioco un po’ estenuante che ci divide sul modo di intendere o fraintendere la consulenza filosofica.
    Tuttavia, mi sembra più produttivo, limitarmi a segnalare quello che a me sembra un limite (non nuovo) della tua ricostruzione della “cosa”, per poi condividere quella che mi sembra la sostanza del tuo intervento.
    Il limite è che tu sembri immaginare (contro quello che tu stesso scrivevi a suo tempo, ma, probabilmente, è un mio fraintendimento) che, se i filosofi differiscono enormemente l’uno dall’altro quanto a “dottrina”, essi condividano, tuttavia, un “metodo”, una “procedura”, una “pratica”, sulla quale si possa fondare, proceduralmente, la consulenza filosofica. Ma, come è stato osservato da molti, i filosofi differiscono quasi altrettanto sul modo di intendere il “filosofare” che sulle loro rispettive dottrine (peraltro spesso finemente intrecciate con questo filosofare stesso). Questo dato quanto meno – converrai – complica un po’ il quadro. Anche se vuoi fare “consulenza filosofica pura” non puoi non contaminarla con la tua dottrina (visione ecc.) in quanto questa è intrecciata col tuo “metodo”. Anche Achenbach e Pollastri lo fanno, inevitabilmente. Come dire: inevitabilmente conferiscono al loro “modo di procedere” qualche finalità (la chiarificazione della visione del mondo del proprio interlocutore, ad esempio, piuttosto che il suo “bene”), qualche stile (piuttosto logico-argomentativo che intuitivo-allusivo, ad esempio) ecc.; questo perché intendono la “filosofia” in un certo ben determinato (storicamente determinato) modo.
    Ciò precisato, concordo con te ampiamente sull’importanza di una ricostruzione storica corretta della consulenza filosofica nel mondo e in Italia, per come essa concretamente è sorta, si è auto-interpretata, definita ecc.. Come sai, ritengo che si possano legittimamente “superare” certe tesi fondative (un esempio è quello della distinzione tra “dottrina” e “procedura”, appena suggerito, altri noti esempi sono il – mancato – rapporto tra “teoresi” e “soddisfazione di bisogni” ecc.), mostrandone i limiti, la non veduta contraddittorietà, l’inapplicabilità in un’ottica professionale o di mercato, l’eventuale incompatibilità con la legislazione vigente ecc. , insomma giustificando accuratamente la propria posizione “innovativa”. Ma proprio per superare certe tesi bisogna conoscerle e discuterle (tu dirai: perché non assegnare a questo punto anche un nome nuovo alla cosa “nuova” proposta, per amor di chiarezza? Il discorso si farebbe lungo: in sintesi, se ti “lasciassi” chiamare consulenza filosofica qualcosa che ho trovato, a ragione o torto, inadeguato o contraddittorio, è come se non “liberassi” la cosa dalle sue interne contraddizione facendola evolvere, ma la sostituissi con un’altra, il che – secondo me – è l’opposto dell’Aufhebung filosofica) .
    Ma proprio perché ritengo che non esista un copyright sulla filosofia e, neppure, sulla consulenza filosofica, né un unico modo per intenderle, per evitare il rischio – connesso a questo stato di cose secondo me inevitabile – della confusione in cui tutto può significare il contrario di tutto, mi sembra indispensabile esercitare uno sguardo storico e prospettico corretto (del resto ormai invalso, non a caso, nel campo dello studio della filosofia).
    Se il libro che recensisci pecca in questa direzione, confondendo i termini e non giustificando accuratamente la loro scelta, la tua critica non può che essere condivisa. L’invito ai lettori di questo blog deve essere quello di documentarsi sulla storia della consulenza filosofica. globale e nostrana, attraverso testi più attendibili, come quelli, ad esempio, del nostro amico e collega Davide Miccione.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Caro Giorgio, che dopo tanti anni ancora non si sia trovato un accordo per convivere anche terminologicamente su questo terreno non depone, purtroppo, a favore delle capacità dialogiche dei filosofi… Ma riproviamo ancora.
      Non vorrei che tu facessi lo stesso errore della Castiglioni, ovvero usassi sinonimicamente “filosofia” e “consulenza filosofica”: il primo termine identifica un vastissimo (anche se non illimitato!) ambito, che attraversa due millenni e mezzo della storia umana e perciò possiede forti ambivalenze, se non vere e proprie ambiguità, che – visto il ruolo svolto da quel campo – possono persino essere virtuose; il secondo, invece, identifica un’attività professionale inventata neppure quarant’anni fa da un signore che le ha dato anche alcune nette caratteristiche e l’ha posta sul mercato. Nella seconda si pratica la prima, certo, ma la si pratica secondo un’accezione piuttosto precisa, comune al movimento delle “pratiche moderne” (vale infatti anche per la P4C, per il dialogo socratico e per i café philo alla Sautet): come prassi teoretica che non poggia fondativamente sul pensiero dei filosofi. Achenbach ritiene che quell’accezione sia la “vera filosofia” (me l’hanno confermato anche recentemente); io sono più prudente e democratico, non voglio nemmeno entrare nella questione, mi basta affermare che quell’accezione della filosofia è quella della “vera consulenza filosofica”, cosa peraltro attestata storicamente.
      Francamente mi pare che ciò sia sufficiente per chiudere la questione, visto che qui non si tratta affatto di mettere un copyright sulla filosofia, casomai di metterlo sul “marchio” (appunto) di un’attività professionale, che si è presentata sul mercato in un certo modo e che è giusto venga rispettata per come è nata, almeno fintantoché non ci sia più nessuno che la pratica in quel modo. Non farlo, magari affermando – come hai fatto – di voler “liberare la cosa” da quel che “a ragione o a torto” ritieni inadeguato, è operazione questa sì da copyright: pretendi infatti, totalitaristicamente, di costringere anche chi l’ha inventato – e che, a ragione o a torto, ritiene sia adeguatissimo – a cambiare il concetto della cosa. Perché non sei un po’ più democratico e, come feci tanti anni fa con chi faceva counseling filosofico, non lasci che chi fa cose che ritieni inadeguate le faccia, dialogando con loro da diverso, anche criticamente?

      • GIORGIO GIACOMETTI

        Sono d’accordo sull’ovvia differenza tra filosofia e consulenza filosofica. La lunga storia della prima rende il termine che la designa assai più ambiguo di quanto non possa essere ambigua la designazione “consulenza filosofia”, data la breve storia di quest’ultima.
        Sono anche d’accordo (e l’ho scritto nel precedente post, di più l’ho documentato in questa pagina web https://www.platon.it/pratica/sample-page/per-una-rifondazione-storica-della-consulenza-filosofica/) che bisogna avere l’onestà intellettuale di ricostruire correttamente la storia della consulenza filosofica nostrana, distinguendola ad esempio dal “counseling”, riconoscendone la radice in Achenbach e, se vuoi, Pollastri (dando, cioè, a ciascuno il suo),
        Sotto questo profilo non penso di commettere l’errore della Castiglioni, per come l’hai presentato tu.
        Se ti ho dato l’impressione di pretendere “totalitaristicamente” di decidere che cosa debba essere ora la consulenza filosofica per tutti, me ne scuso.
        Sottintendevo che il riconoscimento di eventuali contraddizioni interne a un certo concetto (nel nostro caso la c.f.) è atto di cui chi lo compie si deve assumere la responsabilità e che deve saper argomentare al mondo, essendo ovviamente disponibile alla confutazione.
        Nel caso della c.f., per la verità, una certa evoluzione storica della nozione si registra in molti cultori, nella comunità professionale stessa, come sai, quella stessa che, pur avendo preso le mosse da Achenbach e Pollastri, ha ritenuto di mettere in discussione alcuni principi fondativi.
        Sono d’accordo che quest’evoluzione possa legittimamente essere respinta da chi la ritiene indebita e intende restare fedele a certe premesse fondative.
        Sono anche d’accordo che si dovrebbe fare chiarezza e se, come io sostengo, non si può “bloccare” l’uso di un termine (anche se fossi d’accordo con te che lo si dovrebbe fare, non si può di fatto impedire che Castiglioni e moltissimi altri lo usino come meglio credono), si dovrebbe esplicitare sempre l’accezione con cui lo si usa, soprattutto quando si intende adoperarlo in modo innovativo rispetto a una certa tradizione.
        Ma, appunto, anche se “consulenza filosofica” ha un uso legittimo e comprensibile assai più ristretto di “filosofia” a me non sembra riducibile al tuo, pur legittimo e storicamente nobile, impiego.
        Mi vengono in mente due esempi.
        La parola “socialismo” alludeva alla socializzazione dei mezzi di produzione ed era originariamente sinonimo di “comunismo” (in Marx per esempio). Poi storicamente a poco a poco, ma per ottime ragioni, ha finito per significare una prospettiva riformista, keynesiana, di difesa di certi interessi di classe in un quadro fondamentalmente liberale e di mercato. Processo confusivo? Forse no, se quest’evoluzione ha avuto un senso storico e può essere seguita e compresa nelle sue diverse tappe.
        Più vicina allo status della “consulenza filosofica” è forse il caso della psicoanalisi.
        Jung, rompendo con Freud, rifiutandone molti postulati, “onestamente” ha chiamato la sua nuova scuola “psicologia analitica” o “del profondo” (questo esempio porta acqua al tuo mulino). Ma Lacan, viceversa, si è sempre proclamato “psicoanalista”, considerando i cosiddetti “freudiani” dei “revisionisti” americanizzati o poco più. Oggi, infatti, se vai dall’analista, precisi “lacaniano” o “freudiano”.
        Non troverei nulla di inaccettabile a dire di andare da un consulente filosofico “achenbachiano” o “pollastriano” piuttosto che “giacomettiano” o “appartenente a Phronesis” o simili. L’evoluzione del significato di una nozione può essere accompagnata da specificazioni chiarificatrici, almeno per gli addetti ai lavori (il che non è davvero fare di ogni erba un fascio).
        Tu stesso, se non erro, avevi proposto una specificazione “docg” o simili, proprio in questo senso. E io non ci trovo niente di male.
        Non vorrei, infine, che cadessimo nel puro nominalismo. Quale che sia il nome che ci si dà, l’importante sarebbe che l’utente comprenda (nella misura del possibile, prima di farne esperienza) di che cosa si tratta.

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Appunto, l’importante è che l’utente capisca. E come può capire se si usano termini diversi come se fossero sinonimi? Come può capire se più professionisti (o anche formatori alla professione) dicono uno che la cf non fa uso di strumenti psicologici e l’altro che invece li usa, uno che non è suo obiettivo risolve problemi e l’altro invece che il filosofo è pagato solo per far questo, uno che non fa uso di sapienza filosofica altrimenti consiglia e rischia di plagiare e l’altro che invece pesca sapienze filosofiche e le offre all’ospite, uno che la CF è cura di sé e l’altro che la cura di sé è una pratica psicologica da cui la consulenza si tiene lontana, uno che è mera teoresi e l’altro che è applicazione di esercizi dei filosofi del passato, uno che solo la stupidità militante sa cosa sia l’aiuto e l’altro che la consulenza è, per l’appunto, proprio aiuto?
          Non so cosa intendi qui per “nominalismo”; io credo che i nomi e la loro sempre più precisa caratterizzazione siano importanti per orientarsi nel mondo e che la teoresi della consulenza filosofica sia proprio questo: dare alle cose i loro nomi, distinguere cose diverse, condizione per potersi poi muovere bene nel mondo. I consultanti lo capiscono e lo fanno, i filosofi consulenti no. Siamo arrivati al paradosso che si vorrebbe abolire perfino la distinzione consulenza/counseling, che aveva permesso per vent’anni la pacifica convivenza di chi aveva idee diverse!

          La parola “socialismo”, Giorgio, non identificava una professione e non aveva neppure un signore che l’aveva messa a punto, quindi l’esempio è molto, molto inadeguato (direi che ne fai un uso retorico, nel senso meno nobile del termine). “Psicoanalisi” lo è di più, infatti – come hai rilevato – Jung, divergendo da Freud, ebbe la buona educazione di scegliersi un nome diverso. Lacan no, e questo non va a suo merito, però va detto anche che: a) l’ha fatto quando la psicoanalisi era ormai affermata, quindi quando il danno del fare confusione attorno all’oggetto di mercato era meno grave (e comunque a mio parere del danno l’ha fatto, perché per l’appunto da lì la professione ha cominciato a perdere mercato); b) Lacan si è sempre dichiarato freudiano e non ha messo in discussione i principi della psicoanalisi di Freud; non ha abolito l’inconscio, o detto che gli psicoanalisti curavano il tumore, alla fin fine ha solo interpretato a modo suo l’inconscio. Non sta a me discutere quanto con ciò si sia scostato, ma – ripeto – NON ha messo in discussione i principi della pratica.
          Perché questo è il punto in ciò che tu chiami “evoluzione”: che più che altro si tratta di uno “smontaggio”, come se tu dicessi che il veganesimo ha subito un’evoluzione perché adesso si possono mangiare uova e pollame: sarebbe comico, no? E si darebbe ragione alla rabbia dei vegani, che digerirebbero maluccio anche l’appellativo “vegano giacomettiano” (che mangia uova e pollame) e “vegano pollastriano” (che ammette solo le bistecche di chianina, a condizione che siano al sangue). Né esiste alcunché di ciò che chiami “contraddizioni interne”, a meno che già non si interpretino i termini in modo diverso da come lo sono stati, che poi è quel che fai quando sostieni che “la filosofia non si può definire”: in assoluto probabilmente no, ma l’uso che se ne fa dentro la CF è stato definito fin dall’inizio, quindi problema “interno” proprio non ce n’è. C’è solo quello, molto esterno, di un certo numero di persone che non apprezzano la definizione e ciononostante insistono a voler giocare proprio quel gioco, ma con le regole che piacciono loro di più.

          No, l’uso linguistico non può più essere bloccato. Poteva esserlo: bastava depositare il marchio (qualcuno, in Italia, c’aveva anche pensato, non io sia chiaro), ma non è stato fatto. Diciamo che si confidava a torto sulla correttezza e l’intelligenza delle persone, più esattamente dei filosofi. Una fiducia malriposta, purtroppo.

          • GIORGIO GIACOMETTI

            L’utente può capire le differenze tra le forme di consulenza filosofica, a parità di “nome”, se gliene si spiega e giustifica l’origine (cosa che chi confonde bellamente consulenza e “counseling” evidentemente non fa).
            Gli esempi che rechi sui vegani mi sembrano un po’ caricaturali. Il dibattito che ben conosci che ha portato a limare, da parte di alcuni, alcune ipotesi iniziali sulla natura della consulenza filosofica (per esempio sul tema dell’aiuto e della soddisfazione dei bisogni), non ha prodotto una sconfessione plateale e gratuita di quelle premesse, ma una loro legittima messa in discussione da parte di professionisti (almeno in alcuni casi, purtroppo pochi) che, nell’esercizio della loro professione, sulla base della loro esperienza, hanno ritenuto di assumere un approccio innanzitutto autocritico (che c’è di più filosofico?), senza rinnegare una virgola della propria storia, anzi rivendicandola, e rivendicandone le radici.
            Nota che in alcuni casi (come il mio) tale messa in discussione nasce da una rilettura degli stessi testi di Achenbach che potrebbero non essere così “univoci” come li abbiamo sempre intesi (del resto sappiamo bene quanto il Nostro fosse criptico e, non a caso, indisponibile a sviluppare teorie), a partire dalla nozione di meta-teoria praticante, per continuare con quella di “bonifica dei bisogni” (bisogni che, in un certo senso, sono supposti, non negati), per finire (ma si potrebbe continuare) col vero, possibile significato della critica achenbachiana delle professioni dell’aiuto…
            Non è questa la sede per approfondire questi temi specifici (ti rimando alla pagina a cui ho già alluso nel precedente messaggio). Vi accenno solo per ribadire la mia tesi che una comunità professionale, che vive nella storia, a maggior ragione se si tratta di una comunità di filosofi, debba poter approfondire autocriticamente certi propri fondamenti senza necessariamente cambiare il nome con cui i suoi membri sono noti, a condizione che ciò avvenga giustificatamente e alla luce del Sole.
            Non possiamo rinunciare al dibattito o auto-sospenderci dalla nostra attività professionale alle prime avvisaglie di divergenze di opinione sul modo di intendere certi concetti, alla faccia della libertà di metodo che rivendichiamo e dell’atteggiamento meta-teorico che ci dovrebbe contraddistinguere.
            Questa libertà che rivendico è anni luce distante dal fare qualsiasi cosa ci piaccia e darci qualsiasi nome ci convenga, così, “a muzzo” (a caso).

            • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

              Gli esempi sui vegani non sono per nulla caricaturali, caro Giorgio! Anzi, corrispondono in modo esatto (quanto può esserlo un’analogia) a quel che viene fatto alla consulenza filosofica.
              Il vegano pone il principio che gli animali non possano essere usati dall’uomo, e richiede che questo precetto informi ogni comportamento di chi si dichiara tale. Se qualcuno “limasse quest’ipotesi iniziale” (come scrivi tu, sbagliando, perché qui non ci sono “ipotesi”, ci sono “assunti”, non si sta parlando di un oggetto che esiste in natura ma di un artefatto creato con atti deliberativi) dicendo per esempio che il formaggio o le uova si possono mangiare perché non sono “vita animale”, o che si possono continuare a produrre borse e scarpe di pelle perché non si mangiano, o che si può mangiare il pesce perché non è vita terrestre, o magari non è vita intelligente, non avrebbe “limato”, bensì “frainteso” l’ipotesi iniziale, probabilmente o perché proprio non l’aveva capita, oppure per ragioni di comodo (nota che io non sono vegano, cerco solo di capire come pensa chi lo è). E il vegano si indignerebbe assai, a mio parere giustamente.
              Ora, tra gli assunti della consulenza filosofica ci sono tra gli altri: a) che non sia aiuto (non c’importa granché di interpretarlo, casomai ci interessa di capire come possa non esserlo), b) non ha a che fare con bisogni (possono ben preesistere, ma noi ci occupiamo d’altro), c) non fa uso di teorie bensì fa teoresi (“metateoria praticante” = teoresi). Ammettiamo che qualcuno “limi” (l’uso linguistico mi fa morire dal ridere…) questi assunti e li trasformi per esempio in: a) è una professione d’aiuto, b) risponde ai bisogni dell’ospite, che ci paga per questo, c) “si basa sul concetto di Cura di Heidegger”, “di visione del mondo di Jaspers”, “di volto dell’Altro di Buber”, eccetera, o – peggio – “fa uso degli esercizi spirituali di Epicuro”, o – ancor peggio – “Platone ne è un paradigma irrinunciabile” (cit.): ebbene, per chi abbia a cuore gli assunti di Achenbach questo suona esattamente come le “limature” apportate agli assunti dei vegani.
              Sei troppo intelligente per non capirlo, per cui se non ci riesci credo sarebbe il caso ti interrogassi per capire cosa te lo impedisca.

              Visto che questo nostro discorso va avanti da veramente troppo tempo e che se non siano riusciti a trovare un accordo finora è difficile che ci si riesca in futuro, concludo facendoti solo osservare, da consulente filosofico, che il discorso che fai comunque non funziona. Non solo per me, ma neanche per te.
              Perché è verissimo che – come dici – “l’utente può capire le differenze tra le forme di consulenza filosofica, a parità di “nome”, se gliene si spiega e giustifica l’origine”, ma questo presuppone che “l’utente” sia già arrivato dal consulente che gli dà spiegazioni, cosa che viene però ostacolata dal fatto che, prima, avrà preso informazioni su cosa sia la consulenza filosofica e avrà tratto delle prime conclusioni, quasi certamente critiche, dal fatto che tutti quelli che ne parlavano dicevano di lei cose diverse, in certi casi perfino opposte. La comunicazione sociale, per non dire la promozione o il marketing, non si fanno spiegando uno a uno cosa fa il singolo professionista.
              Non solo: non è neanche vero “che chi confonde bellamente consulenza e counseling” non spieghi e giustifichi l’origine di quel che fa: egli, infatti, “lima” gli assunti in un modo che non è né il mio, né il tuo, ma il suo – quando dai per buono che si possa “limare”, chi mai può decidere dove finisca la “limatura”? E, secondo il tuo ragionamento, ha pieno diritto di farlo, essendo anche lui “noto” con il nome di “consulente filosofico” (siamo arrivati a conferire autorità sulla base della notorietà…), magari perché ha un titolo di master rilasciato da un’università che ignora quella differenza…
              Così, alla fine, anche tu verrai messo in mora – se non alla gogna o persino denunciato – in quanto pratichi la consulenza filosofica, diventata “professione d’aiuto” alla stregua del counseling, senza avere alcun tipo di certificata formazione psicologica, condizione in effetti richiesta (a mio parere giustamente) per le “professioni d’aiuto”. E questo varrà per te, per me e per Achenbach, rendendo definitivamente impossibile anche de jure ciò che avrete già contribuito a rendere impossibile de facto, cioè guardare alle difficoltà esistenziali non già come “problemi da risolvere”, “bisogni da soddisfare”, “disagi di persone da aiutare”, bensì come normalissime conseguenze di pensieri inadeguati. Peccato, era stato un bel sogno poterlo fare.