Ma il filosofo non è un educatore 15


Seguendo i più recenti sviluppi delle sedicenti “pratiche filosofiche”, non posso non rilevare come questi siano all’insegna della formazione, vuoi perchè chi promuove tali attività viene da quell’ambito – o insegna, o si muove nel gran mare della formazione aziendale, o peggio ancora vuol solo insegnare quelle stesse pratiche – vuoi perché in esse si afferma sempre più l’idea che il filosofo sia un educatore.

Come ho scritto più volte, sono ormai molto molto scettico sulla famiglia delle sedicenti “pratiche filosofiche” (sebbene non su alcune di quelle che vi si collocano dentro, isolatamente prese). Le ragioni sono tante, ma tra queste una delle più rilevanti è proprio il fatto che esse facciano leva su una tale idea del filosofo, che trovo semplicemente sbagliata, dato che il filosofo ricerca conoscenza, nuove mappe del mondo, nuove verità, non educa – o, se lo fa, fa un mestiere improprio.

Che la pratica della ricerca sia radicalmente diversa da quella dell’educare dovrebbe essere chiaro a chiunque le abbia svolte entrambe o anche solo le abbia osservate e analizzate: nella ricerca si parte dal non sapere, nell’educazione si trasmette qualcosa di noto e consolidato; nella prima si creano cose nuove, nella secoda si trasmettono cose già pronte; nella ricerca si opera su teorie o concetti e la nostra responsabilità è relativa alla qualità del lavoro, nell’educazione si opera su persone e la responsabilità è nei loro confronti; nella prima non si sa neppure cosa si troverà, nella seconda si hanno dei precisi compiti da ottemperare. E si potrebbe andare avanti nell’analisi comparativa delle due pratiche, o richiamare Sull’educativo di Martin Buber (in Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Milano, 1993), nel quale viene ben spiegata la loro radicale e profonda diversità.

Che poi la confusione delle due pratiche imperi proprio nel campo sorto sulla scia della Philosophische Praxis è decisamente paradossale, visto che quest’ultima nasceva (anche) per liberare il filosofo dal ruolo di insegnante e formatore nel quale è costretto a calarsi per guadagnarsi da vivere. La “sfida della Philosophische Praxis alla filosofia accademica” di cui parlava Achenbach era per infatti la rivendicazione della ricerca sull’educativo e sulla storiografia filosofica che gli fa da pendant: grazie alla professionalizzazione del lavoro di ricerca su tutti i possibili ambiti problematici della nostra realtà, svolto in studio assieme a coloro che ne fanno esperienza diretta (e non più, scriveva Achenbach ormai trentacinque anni orsono, solo per conto dei “grandi committenti” quali gli stati o le religioni), il filosofo avrebbe finalmente potuto smettere di fare l’educatore e tornare a fare il filosofo.

Quindi, rivendicare il ruolo di educatore del filosofo è di fatto un rinnegamento della “svolta pratica” inaugurata da Achenbach, anzi un vero e proprio ripiegamento sull’accademismo e sulla scolastica. Ma perché è accaduto questo? Le ragioni sono probabilmente molte e qui posso solo ipotizzarne alcune.

In primo luogo penso vada annoverata proprio quella perdita di capacità di fare ricerca da parte dei laureati in filosofia, a suo tempo stigmatizzata da Achenbach e ancor più da Marc Sautet nel suo Socrate al caffè: l’abitudine a lavorare con lezioni pronte, verità da insegnare, compiti educativi da ottemperare ha finito per far dimentaticar loro cosa sia il filosofare come ricerca, anzi perfino a temere la possibilità stessa di mettere in gioco quelle sicurezze per cercare sguardi diversi sul mondo.

In secondo luogo osserverei che l’accademismo storiografico contro il quale tanti a parole si oppongono in realtà sia dentro di loro fin dalla propria formazione: quanti laureati in filosofia, anche tra coloro che fanno “pratiche filosofiche”, hanno realizzato qualche lavoro di autentica ricerca? Cioè non un libro su Platone o Nietzsche, su Tommaso o Kant, bensì uno studio che provasse a dare una risposta a un problema qualsivoglia, quali per esempio la giustizia distributiva, il fondamento dei valori, lo statuto della mente, il concetto di caso nella scienza moderna?

Come conseguenza di questo c’è probabilmente la difficoltà degli “esperti in filosofia” a capire il valore stesso della ricerca. Troppo spesso sento stigmatizzare come “astratta”, “lontana dalla vita” o dalla “quotidianità” la ricerca filosofica, accuse di fronte alle quali resto basito: la filosofia è per definizione “astratta”, perché va aldilà dell’immediato e risale ai suoi presupposti, mette in dubbio l’esistente e ne discute il fondamento; una filosofia che non faccia questo, più che “concreta”, la riterrei chiacchiera – e non c’è dubbio che molte “pratiche filosofiche” a cui ho assistito fossero mere chiacchiere “colte”, cioè ricche di citazioni e/o parole forbite. La ricerca filosofica è astratta e proprio grazie a questo è concreta: senza il suo lavoro di astrazione non potremmo mai capire pienamente le cose concrete del mondo e, di conseguenza, continueremmo a vivere male a contatto con esse.

Di conseguenza, infine, da parte di chi svolge le cosiddette “pratiche filosofiche” manca la capacità di offrire al pubblico dei possibili committenti il filosofare per quello che è, cioé ricerca, perché non se ne capisce il valore profondo e l’utilità; da qui lo slittamento su una cosa che filosofia non è, ma che può essere “venduta”, qual è la formazione.

Tutto ciò, purtroppo, non fa che ulteriore danno alla filosofia, trasmettendo di essa un’idea scorretta e rafforzandone la cattiva fama: che, in quanto tale, non serva a nulla, al punto che i suoi protagonisti, i filosofi, per avere un posto nel mondo debbano fare un altro lavoro – appunto l’educatore, il formatore, l’insegnante.


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15 commenti su “Ma il filosofo non è un educatore

  • Gianluca

    Io invece ho sentito dire che, con il proprio modo di essere e agire, “tutti siamo educatori”, dalla cassiera al supermercato al medico o infermiere, dal politico al giornalista alla conduttrice televisiva, dal bidello al… filosofo. “Non si insegna ciò che si sa, ma ciò che si è!” (Cit.)

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Caro Gianluca, quel che “ha sentito dire” fa appunto parte del “si dice”, della chiacchiera. Presa così la frase è tanto ambigua da non vuol dir nulla, è un aforisma da bacio Perugina.
      Se “tutti siamo educatori” fosse vera, allora nessuno sarebbe educatore in senso stretto, tecnico, professionale (cosa che peraltro mi pare inesatta) e tutti coloro che si fanno retribuire in qualità di educatori sarebbero millantatori, non facendo nient’altro di ciò che fanno tutti gli altri senza che li si paghi. A maggior ragione, quindi, il filosofo dovrebbe essere riconosciuto (e retribuito) per quel che fa – la ricerca della verità – così come accade “alla cassiera al supermercato al medico o infermiere, al politico al giornalista alla conduttrice televisiva, al bidello”, tutte categoire che svolgono un ruolo preciso e non sono assunte e pagate “perché insegnano ciò che sono”.
      Spero di essere stato chiaro.

  • Bruno Vergani

    Si comincia con un pensare naïf ma fresco e originale, poi col passare del tempo si cerca, giustamente, la compagnia dei saggi che ci hanno preceduto così da indagare meglio e di più. Dai e dai nel visitarli l’erudizione aumenta e quell’operare in presa diretta dell’inizio tende a diminuire sostituito dalle belle risposte degli autori che abbiamo frequentato e frequentiamo. Eccole sistemate e sistematizzate nel nostro scaffale, pronte ad attivarsi in automatico per spiegare il mondo, come fa la zampa della rana di Galvani quando prende la scossa. Ce ne vuole di vigilanza per una sintesi tra i due livelli. Mica s’improvvisa in presa diretta sul niente, mica è possibile e manco sano straniarsi da tutti i pensieri che già esistono. Così chi dice -con la parola o con l’arte- inevitabilmente citerà l’Altro, oppure ne prenderà in prestito il pensiero e talvolta, più o meno consapevolmente, lo ruberà copiandolo. Nel contraddittorio voler esprimere l’inedito assoluto assemblando fotocopie Montaigne, nei suoi Saggi (libro primo, capitolo XXV Pedagogia), indica un’efficace soluzione osservando le api: «… Infatti, se abbraccia le opinioni di Senofonte e di Platone per suo proprio ragionamento, non saranno più le loro, saranno le sue. Chi segue un altro, non segue nulla. Non trova nulla, anzi non cerca nulla … bisogna che assorba i loro umori, non che impari i loro precetti. E, se vuole, che dimentichi pure arditamente da dove li ha presi, ma che sappia appropriarseli. La verità e la ragione sono proprietà comuni a ognuno, e non sono di chi le ha dette prima a maggior ragione di che le ha dette poi. Non è secondo il parere di Platone più che secondo il mio, dal momento che lui ed io l’intendiamo e la vediamo allo stesso modo. Le api saccheggiano i fiori qua e là, ma poi ne fanno il miele che è solo loro; non è più timo né maggiorana: così i passi presi da altri, egli li trasformerà e li fonderà per farne un’opera tutta sua, ossia il suo giudizio. La sua istruzione, il suo lavoro e il suo studio non mirano che a formarlo». Insomma originale e inedito pensiero frutto di personale interconnessa elaborazione. Tutto sommato anche Dio per fare Adamo ha preso un po’ di polvere da terra.

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Caro Bruno, sono d’accordo con quel che scrivi, solo che tu stai per l’appunto descrivendo una situazione di formazione personale, non una di ricerca filosofica: parli di processo educativo, non di processo filosofico.
      Forse obietterai che in quel processo vengono citati filosofi; ebbene, e allora? Vengono citati in quanto SAPIENTI, sophos, non in quanto CERCATORI DI SAPIENZA, philosophos. E, in quanto tali, in un processo formativo le loro idee saranno accompagnate da quelle di altri – scienziati, letterati, psicologi, sociologi, strateghi militari, politici, semplici cittadini intelligenti. E dunque, che c’entra la filosofia?
      Di nuovo, dunque, distinguiamo attentamente l’educativo dal filosofico, si tratta di pratiche diverse. Non facendolo saremmo in primo luogo cattivi filosofi (la filosofia ricerca chiarezza) e in secondo faremmo un danno alla filosofia, confondendola con altre pratiche e non facendone capire l’importanza. Un importanza che forse, Bruno, sfugge pienamente anche a te (e di questo potremmo con piacere riparlare)

      • Bruno Vergani

        Caro Neri, la prima problematica che porrei è: «Il “ricercare conoscenza, nuove mappe del mondo, nuove verità” è “la” Filosofia o “una” filosofia che necessita, anch’essa, di metodi e strumenti?»; la seconda: «Ammesso che in una filosofia alberghi qualcosa di radicalmente contraddittorio, a mo’ di esempio se ancilla fidei, può sussistere una filosofia assolutamente scevra da discipline, scuole, posizioni, teorie e correnti?»; la terza è: «Nel pormi-porre tali domande sto filosofando o chiacchierando?».

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Caro Bruno, io credo che ricercare la verità sia “la” filosofia, se questa ricerca è fatta con determinate modalità (non parlerei né di metodi, né di strumenti, per ragioni che qui sarebbe troppo lungo spiegare), altrimenti anche la scienza o l’investigazione poliziesca sarebbero filosofia. Posso tuttavia sbagliarmi, ma in quel caso resterebbe da chiarire una cosa: se ci fossero più accezioni di “filosofia” (che ovviamente non siano riconducibili ad altre pratiche, come la terapia o l’educazione), qual è l’elemento che le unifica e fa sì che si parli sempre di “filosofia”? Individuato quell’elemento, la filosofia non sarebbe già più “molte”, ma “una”.
          Aggiungerei: finché la filosofia non sarà in grado di presentarsi come “una” (ovviamente parlo di “prassi”, non di “lettura del mondo”) non riuscirà neppure a essere riconosciuta positivamente dal pubblico, continuerà ad avere cattiva fama. A ragione, secondo me.
          La filosofia non è “ancilla fidei”, lo è stata per un periodo e per determinati pensatori, ovvero lo è stata non “in quanto prassi filosofica” bensì “in quanto prodotto determinato di quella prassi”. Ora, la cosiddetta “svolta pratica” ha come primo merito di essere tornata a mettere l’accento, quando si parla di filosofia, sulla “prassi” (forma d’agire, processo, pratica, chiamiamola come si preferisce), cioé su ciò che produce ogni determinato complesso teorico; quella prassi può liberamente attingere a qualsiasi “strumento di pensiero” per produrre qualsivoglia contenuto e non sarà mai in sé “contraddittoria”, a meno che non sbagli qualche passaggio argomentativo, né potrà mai essere “ancilla” di alcunché. Di questa “prassi” io parlo quando uso il termine “filosofia” e non dei contenuti.
          Infine, all’ultima domanda devo rispondere che non lo so: come dice il mio buon amico Alessandro Volpone, se l’esercizio di una prassi sia stato “filosofico” si vede solo alla fine, non bastano né intenzioni, né buoni inizi. In fondo, la domanda “perché l’essere invece del nulla?”, che tutti considerano filosofica, non lo è ancora, può diventare scientifica o religiosa, dipende da come la si sviluppa; e, allo stesso modo, “che fare, visto che non ho i soldi per riparare l’auto?”, che può sembrare (e di solito è), pragmatica e quotidiana, può trasformarsi in interrogazione filosofica, come mi capita di mostrare quando presento in pubblico il “filosofare fuori le mura”.

  • Patrizia Beretta

    La ringrazio per la chiarezza e semplicità che si fanno ampia strada entro questioni rese volutamente complesse. Un saluto patrizia

  • Giorgio Giacometti

    Io rimango alla “dottrina Pollastri” originaria (per come io la intendo e CERTAMENTE la fraintendo), secondo la quale l’esercizio filosofico non ha altro fine che la ricerca critica, la chiarificazione delle visioni del mondo ecc. e riesce tanto più quanto più ha di mira soltanto questo. Nondimeno, proprio in questa sua radicalità esso può conseguire pregevoli “effetti collaterali”, di che tipo? Educativo, trasformativo, emancipativo, perfino terapeutico (conseguito tanto più quanto meno li si aveva di mira, in base alla struttura logica che denomino “eterogenesi dei fini”).. Il problema, che sollevavo, è che, nel momento in cui chi fa filosofia si accorge, “con la coda dell’occhio”, di questo genere di potenziali “benefici” , rischia di tematizzarli e di farne un “oggetto” o un “obiettivo” esplicito e diretto. Fino a che punto ciò è legittimo? Non si potrebbe invocare la socratica maieutica per legittimare una certa funzione educativa del filosofare? Non si potrebbe sottolineare il paradosso di un’educazione che è tanto più efficace quanto meno è tematica (come quella della vita stessa rispetto p.e. alla scuola)? (Attendo feroci reprimende, della serie: “Giorgio, come sempre, essendo tu un accademico, un insegnante, un essere abbietto, continui a non capire, anzi, fingi di non capire capendo di fingere, con i tuoi sofismi….”)

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      No, non si potrebbe invocare la maieutica socratica, per le ragioni ben spiegate da Gregory Vlastos, che tu Giorgio dovresti conoscere (e ricordare…), ma che riassumerò a beneficio di chi le ignori: perché la maieutica non è socratica, ma platonica. Viene infatti menzionata nei dialoghi posteriori a quelli propriamente socratici e ha senso solo se si presuppone una concezione dell’uomo ben precisa, quella della visione del mondo di Platone, per il quale ciascuno ha già in sé un consocere che deve solo “ricordare”, portare alla luce. E questa non è più ricerca, bensì – appunto – educazione: abilita ad ambientarsi in una realtà ontologicamente predeterminata da colui che educa. Ed è educazione anche per prassi, per processo, come illustra il famoso esempio dello schiavo: lui scopre, sì, ma scopre solo quel che Socrate già sapeva. Socrate non scopre nulla, accompagna. Educa e non filosofa.
      Sugli “effetti collaterali”, certo, io ne ho parlato e resto di quell’avviso. Ma ricorderai – e anche qui lo specifico per chi non lo sappia – che in alcuni lavori di ricerca è stato obiettato che questa formulazione sia un po’ un menare il can per l’aia, che se è così si debba specificare com’è che questi presunti “effetti collaterali” si verificano. Questa è un’obiezione che mi persuade, tocca un aspetto debole della mia “dottrina originaria”. Senza darle una risposta ogni appello a “educazioni più efficaci perché meno tematiche” mi pare finiscano per aggravare il rischio che segnali e che ho sempre segnalato anch’io: deviare dal fine della prassi (nuove conoscenze) verso finalità ad essa estrinseche (migliore educazione), con conseguente stravolgimento della prassi.

      • Giorgio Giacometti

        Caro Neri, ti ringrazio di questa risposta chiara e illuminante. Naturalmente dissento profondamente da questa tua interpretazione della differenza tra l’approccio socratico e quello platonico (che è in parte, certamente, anche quella di Vlastos). Come sai (anch’io scrivo qui a beneficio dei nostri lettori), “fondo” ciò che intendo per pratica filosofica sul paradigma costituito dal dialogo socratico nella versione platonica (senza distinguere tra dialoghi giovanili presuntamente più vicini all’effettiva pratica di Socrate e dialoghi della maturità). Nella mia prospettiva Platone è prima filosofo che educatore o politico o qualsiasi altra cosa. Imitarlo è fare senz’altro filosofia, in ogni tempo (anzi senza alcun riguardo a questioni di ordine “storico”, come la famigerata “svolta pratica” da te spesso evocata), quali che siano gli “effetti collaterali” che ne possano conseguire. Col senno di poi penso che molte nostre divergenze teoriche possano essere ricondotte a questa diversa comprensione della natura della filosofia e del filosofare.Un abbraccio.

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Per dissentire da Vlastos, uno dei massimi storiografi del pensiero antico, immagino tu abbia controargomentato alla sua ricca e profonda tesi storica, filologica ed ermeneutica. Aspetto la tua controargomentazione che, se convincente, potrebbe farmi cambiare idea; in sua assenza, la tesi di Vlastos è oggettivamente fondata, la tua solo una un’opinione soggettiva.

          Riguardo alle differenze sulla natura della filosofia come base delle nostre incomprensioni, mi fa piacere che tu ci sia arrivato! Spero che a partire da qui sia anche possibile fare ordine nelle rispettive “prassi” che ne derivano.
          Infatti, se tu affermi di fondare ciò che intendi per pratica filosofica “sul paradigma costituito dal dialogo socratico nella versione platonica”, di fatto ti metti fuori dal “movimento” a cui ha dato vita Achenbach (e prima di lui anticipato da Lipman), che aveva per caposaldo il suo NON FARE RIFERIMENTO A NESSUNA SCUOLA O AUTORE. Esplicitamente a livello di fondazione delle pratiche e praticamente nel costruirne la vita: Achenbach ha sempre sconfessato e allontanato dalla IGPP tutti coloro che “fondavano” la pratica su qualche filosofo (l’esempio più famoso e illuminante è quello di Witzany), mentre Lipman e i suoi seguaci cassano chiunque nella pratica “imiti” qualche filosofo o si rifaccia a scuole.
          La tua scelta è ovviamente legittima, Giorgio: ognuno è libero di fare quel che preferisce; ma è anche chiaro che la tua scelta, come ti ho detto mille volte, è un ritorno a prima della svolta cosiddetta pratica (e che io chimerei più esattamente “prassica”), che voleva intenzionalmente far a meno di modelli da imitare (neppure Socrate lo è, nessuno prende il dialogo di Socrate come paradigma, la sua figura è solo simbolo del filosofo che affronta i problemi “a mani nude”, senza bagagli di teorie a cui mettere mano e perciò obbligato a inventarsi ex novo sia le risposte sia i modi di darle). Da questo punto di vista la tua proposta è “di scuola” – più esattamente di scuola platonica – e per questo si attaglia al modo di interpretare la filosofia degli accademici, che non riescono a pensarla se non in riferimento a un’autorevole figura tratta dai manuali. E’ in questo senso che ti ho detto tante volte che tu pensi la filosofia in modo accademico, Giorgio, non per offenderti.
          In conclusione, tu sei liberissimo di pensare la filosofia come credi e di trarre da quel modo di pensarla le “pratiche filosofiche” che credi (le pratiche post-ellenistiche degli hadotiani derivano, come la tua,. da un modo accademico di pensare la filosofia), ma troverei più sensato che riconoscessi che quel che fai è in tutt’altro solco da quello della Philosophische Praxis e anche di alcune altre sedicenti “pratiche filosofiche”, per esempio dalla P4C.
          PS: non mi obiettare che chi fa Philosophische Praxis prende a modello Achenbach, perché quest’ultimo filosoficamente non si sa neppure cosa pensi, visto che non ha mai scritto un libro “di filosofia”. Tanto che è stato spesso interpretato da chi ha cercato di comprenderne il pensiero in modo clamorosamente opposto (c’è chi lo considera un postmoderno, chi un esistenzialista e chi un idealista sistematico…). L’Achenbach che conosciamo è solo un “architetto”, o forse il teorico di una certa imprenditoria: prederlo a modello non significa far riferimento alla sua “filosofia” ma solo al modo in cui fa il professionista.

          • Giorgio Giacometti

            Neri, Neri…Come a mia volta ti ho detto e scritto tante volte (e qui ripeto a beneficio dei tuoi lettori), non puoi pensare di fare filosofia “senza riferimento a nessun autore” (come tu sostieni che faccia il filosofo “praticante”), così come non lo può fare né Achenbach, né altri, per la semplice ragione che, senza riferimenti “culturali” o “storici”, non potresti neppure sostenere che quello che fai sia filosofia piuttosto che qualsiasi altra cosa.
            Evocando Platone, nel mio libro “Platone 2.0” e altrove, non ho fatto altro che “fondare” e “legittimare” come autentico filosofare il filosofare dopo la svolta “prassica” (per cui tutti coloro che credono in tale svolta e la praticano dovrebbero ringraziarmi e onorarmi, per aver trovato un argomento dirimente a favore della filosoficità della loro prassi, che, illuminata dal paradigma platonico, si rivela più propriamente e genuinamente filosofica, per la sua natura orale, elenctica, maieutica ecc., delle prassi accademiche).
            “Platone”, insomma, viene evocato (dall’oltretomba e suo malgrado) perché, del tutto a prescindere dalle sue (presunte) “dottrine” (politiche, metafisiche ecc.), ci ha storicamente consegnato un “metodo” che è universalmente riconosciuto come filosofico, quello del dialogo cosiddetto “socratico”. I cultori di pratiche filosofiche, come, credo, perfino un certo Neri Pollastri, scrivono (o scrivevano) che la filosofia “praticata” è costituita da dialoghi con persone in carne e ossa. Ma il “dialogo” è uno strumento che è stato “inventato” sotto il profilo teorico e messo magistralmente a punto da Platone (e, per essere precisi, da Senofonte, che, tuttavia, non è considerato, in generale, filosofo). Lo ha spiegato molto bene il tuo amico Hoesle (che, tra l’altro, ha apprezzato moltissimo la mia interpretazione di Platone, pur non condividendo certi tratti della mia radicalità ermeneutica).
            Ora, se non fai quello che Platone ci ha insegnato a fare, fondando e legittimando una volta per sempre quella che si chiama “filosofia” (come attività, come pratica), come puoi sostenere di fare filosofia e non p.e. sofistica, retorica, buona comunicazione, psicoterapia, investigazione giudiziaria ecc.?
            Potresti obiettare: “Ma il dialogo in senso concreto, praticato, come lo intendiamo noi filosofi praticanti, a cominciare da Achenbach, è stato inventato da Socrate, come dimostra Vlastos. Platone, anzi, ha tradito il suo maestro, facendo della letteratura pseudo-dialogica, elaborando dottrine fintamente dialogiche ecc.”.
            Nel replicare, chiarisco anche la mia presa di distanze da Vlastos. Vlastos avrà anche delineato un profilo del Socrate storico abbastanza plausibile, ma, essendo questo ritratto stato elaborato da lui nel tardo Novecento, non è certamente questo Socrate “storiograficamente ricostruito” che ha conferito alla parola “filosofia” il suo significato storicamente fondamentale, durato per millenni. Il “dialogo” come “metodo” del filosofare che i filosofi praticanti fanno rivivere non è quello di Socrate, ricostruito faticosamente, ma, di fatto, non documentato; ma (come si può dimostrare, al di là delle intenzioni) è quello documentato negli scritti di Platone. Del resto, come argomentava non Giacometti, ma Giovanni Reale (buon anima), se non è detto che Socrate avrebbe sottoscritto tutte le teorie di Platone (come sostiene Vlastos e, sotto questo profilo, può anche avere ragione), sicuramente Platone avrebbe sottoscritto tutto quello che egli stesso fa dire a Socrate nei Dialoghi che egli stesso ha scritto, dunque anche gli elementi (in genere estratti dai dialoghi cosiddetti giovanili o, appunto, “socratici” di Platone) della struttura del “dialogo” che i filosofi praticanti considerano metodologicamente irrinunciabili e “associano” a Socrate (come la dimostrazione per assurdo o dialettica che so starti molto a cuore, come sta anche a me, anche se pare scarsamente praticata e apprezzata da molti nostri colleghi).
            In ultima analisi non è neppure determinante se quello che intendiamo per “filosofare” (come prassi) sia dovuto, soggettivamente, a Socrate o a Platone, storicamente (sia merito dell’uno o dell’altro o, magari, come credo io, neppure loro, ma di altri, p.e. di pitagorici). Quello che è determinante è che si tratti di quella cosa lì, estraibile originariamente dai Dialoghi di Platone. Per averlo chiarito, individuando il “metodo” del filosofare praticato non riducibile a quello del counseling piscologico o dell’inchiesta giudiziaria, attendo con fiducia l’erezione di un monumento (forse scriverò ad Achenbach per suggerirgli di procedere in tal senso…).

            • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

              Caro Giorgio,
              ti ringrazio di aver confermato con le tue parole quello che dico da tempo e avevo ribadito nell’intervento precedente: non sei neppure in grado di pensare la filosofia se non in modo “scolastico”, storico, da insegnante, da accademico.
              E ti ringrazio anche di averne esplicitato le conseguenza di chiusura e dogmatismo che questa posizione contiene: in buona sostanza sostieni infatti che tutti coloro che – come me, Achenbach e Lipman – cercano e ritengono di fare filosofia senza riferimenti a una scuola o a un pensatore, o non sanno cosa fanno, o semplicemente non fanno filosofia – dato che la filosofia a tuo parere è possibile solo prendendo a modello Platone.
              Ne prendo atto, anzi, ne avevo già preso atto sia leggendo il tuo ponderoso volume, sia ascoltando il giudizio censorio che, seguendo il tuo modello, è stato dato del mio lavoro di consulente: non riconducibile al repertorio storico della filosofia, ergo non consulenza filosofica. Giudizio perfettamente accademico.
              Ovviamente avrei molto da osservare e obiettare, per esempio che tu affermi contraddittoriamente che non sia possibile definire la filosofia e contemporaneamente che sia però addirittura dimostrabile quale sia quella “vera” e quale il suo metodo; che te ne esci in modo astutamente manipolatorio dal paradosso in cui cadi – se la filosofia fosse impossibile senza il riferimento storico a un suo precedente, allora non sarebbe mai potuta iniziare – prendendo a paradigma uno che aveva già un modello (Platone è un filosofo “correttamente” riferentesi a un antecendente, Socrate); che il dialogo di Platone che prendi a modello non è un dialogo ma una forma espositiva della scrittura (non è una sbobinatura, bensì nasce come cosa scritta) fatta per presentare al pubblico delle dottrine predeterminate; che esistono un sacco di filosofi importanti che non fanno riferimento a scuole o filosofi (uno su tutti, Wittgenstein); che c’è una bella differenza tra avere ad ampio raggio “riferimenti culturali” (e chi non ne ha?) e fondare la pratica e il suo metodo su uno e un solo pensatore (o corrente).
              Ma non lo farò, perché sarebbe del tutto inutile: forse ricorderai che ho sempre sostenuto che il “limite” del confronto filosofico non sia né la follia, né il coinvolgimento affettivo, ne la modestia culturale e/o intellettiva degli interlocutori, bensì il “dogmatismo impenitente”.
              E questo è palesemente il tuo caso: hai una posizione, quella accademico-pedagogica, e non la mollerai mai, neppure di fronte all’evidenza. Della quale dirai (anzi, già stai dicendo) che non esiste perché non può essere e che l’unica posizione possibile è la tua: chi non lo capisce è stolto, anzi dovrebbe ringraziarti e smetterla di fare cose che non sono filosofia.
              Ci tengo a sottolineare che io – più volte accusato, anche da te, di dogmatismo totalitario – mi guardo bene dal dire questo, anzi, lascio alla tua posizione dignità di esistere indipendentemente dalla mia, semplicemente distinguendo l’una dall’altra sulla base di alcuni parametri. Tu no: la tua è la sola “vera” posizione – non da te “preferita”, non “migliore”, l’unica “vera”, l’unica “possibile” – che deve sussumere a se, totalitariamente, tutto l’esistente; e non chi non lo capisce non sa cosa fa e, comunque, fa altro dalla filosofia.
              Per me questo può bastare. Che altro dire? Tanti saluti.

              • Giorgio Giacometti

                Mi dispiace che le mie osservazioni siano state interpretate in questo modo nel quale non mi riconosco affatto (i nostri lettori ne giudicheranno), possibile – dal momento che non nego la tua buona fede – in virtù della da me più volte evocata (ahimé, anche in questo caso, devo riconoscerlo, sulle orme del “despota” Platone!) ambiguità della scrittura…
                A quale chiusura e dogmatismo ti riferisci? La mia tesi è che tu, Achenbach e tutti coloro che, meritoriamente, finalmente, dopo secoli, hanno ricominciato a filosofare (e mi hanno anche, in parte, insegnato a farlo, concretamente), anche se non lo ammettono o lo riconoscono, “dipendono” culturalmente da una nozione di filosofia che non si deve a Lipman, allo stesso Achenbach o a Wittgenstein, ma a Platone.
                Non mi sono mai sognato (altro equivoco che balungina in altro tuo scritto che mi sarebbe piaciuto smentire, ma non è questa la sede), né avrei mai potuto farlo, di sostenere che tu non faccia filosofia. Ci mancherebbe! La mia stessa partecipazione a questo blog testimonia la stima che ho nei tuoi confronti come filosofo praticante, il primo in Italia, da cui abbiamo e avevamo tutti da imparare. Nel mio pluralismo, che deriva (per quanto ciò ti possa sembrare strano) da Platone, interpretato come “puro metodologo”, non come il depositario di una dottrina, e come un “metodologo” estremamente aperto (in ultima analisi, nella mia lettura, ciò che contraddistinguerebbe il filosofare, da Platone in poi, è proprio quella “ricerca della verità” a cui anche tu alludi all’inizio di questa discussione su filosofia ed educazione), se concedo che possa essere inteso come filosofare anche molto altro rispetto a quello che tu, in genere, concedi che possa essere tale (come certe forme di meditazione à la Lahav ecc.), non escludo certamente la tua pratica, storicamente fondante della pratica filosofica in Italia. Semmai discuto la tua autointepretazione della tua pratica. Non sempre, come sappiamo noi consulenti filosofici, chi fa qualcosa è sempre il miglior interprete del senso di quello che fa… prima di essere andato da un consulente filosofico (e questo forse vale anche degli stessi consulenti filosofici!).
                Dal momento che tu insisti tanto nel caratterizzarmi come accademico, rifletterò autocriticamente su questa tua considerazione (io stesso potrei non essere così in chiaro sulla mia visione del mondo, perchP no?, in effetti sono stato tuo consultante didattico e ne ho tratto frutto). Per ora ti posso concedere che il mio interesse “culturale” per la filosofia antica mi abbia spinto a cercare in essa una fondazione epistemologica delle nostre pratiche filosofiche migliore (proprio per il felice equilibrio tra apertura a stili diversi e necessaria “perimetrazione” del campo filosofico) di quella finora piuttosto vaga diffusa tra gli addetti ai lavori (in cui spesso il richiamo a Socrate resta di maniera e poco approfondito). E’ accademismo? Può darsi. A me sembra che si tratti di un modo legittimo, certamente segnato dalla mia autobiografia intellettuale, di fare ricerca sulla consulenza e le altre pratiche filosofiche.
                Se i nostri lettori, invece di venire allontanati da tali pratiche dalla nostra discussione (come potrebbe accadere ad anime fragili e bisognose di troppe certezze), ne sono stati incuriositi, hanno, anche solo per un soffio, intuito l’enorme rilevanza del rilancio della filosofia come filosofare (con l’inevitabile scia di discussioni anche accese e di auto-interpretazioni che questo evento epocale si porta dietro) e hanno infine provato il desiderio di sperimentarla in vivo, questa discussione (un po’ accademica, certo, in se stessa) non sarà stata vana.
                Buon Natale e Felice Anno Nuovo.