Philosophische Praxis, ovvero: la Consulenza Filosofica D.O.C.G. 16


Come scrivevo nel mio ultimo articolo, se – come alcuni sostengono – nessuno di coloro che chiamano la loro pratica “consulenza filosofica” può ritenersi detentore dell’esclusiva sulla sua identità e se – come di fatto accade – le identità delle pratiche denominate da quel nome sono molte, assai diverse e spesso persino in contraddizione tra loro, allora ne segue che nessuno può dichiarare pubblicamente cosa sia la consulenza filosofica. Ogni “F.A.Q.” si trasformerebbe infatti in un fake, perché ogni definizione “in positivo” negherebbe l’interpretazione che altri danno della pratica e sarebbe lesiva della loro dignità professionale.

Nessuno può quindi definire la “consulenza filosofica”, ma deve limitarsi a parlare della propria interpretazione di tale pratica, perché essa ad oggi è così tante cose assieme da divenire inafferrabile. Questo stato di cose personalmente non mi piace (la filosofia è in primo luogo chiarificazione linguistico-concettuale e qui i filosofi che operano nel settore dimostrano d’aver fallito) e mi pare anche essere un grave impedimento per l’affermazione della pratica, professionale o meno che essa sia (se falliscono persino nel chiarificare cosa sia quel che fanno, appare difficile che i filosofi possano convincere i potenziali consultanti della bontà del loro lavoro), ma non posso che accettarlo come dato di realtà. Di conseguenza anch’io da ora in poi parlerò solo di una specifica interpretazione della consulenza filosofica.

Per identificarla e darle una denominazione distintiva devo anzitutto ricordare che l’espressione “consulenza filosofica” ha una ben precisa data di nascita: aprile 2001, quando sul numero 1/XXI dell’autorevole rivista “Intersezioni” esce il primo documento scientifico a stampa nel quale compare questo termine – La consulenza filosofica. Breve storia di una disciplina atipica, da me firmato.

Quell’articolo ha ovvi limiti di analisi e di conoscenza del panorama internazionale (per esempio confonde ancora Philosophische Praxis e Philosophical Counseling), risalendo a una fase nella quale qui in Italia nessuno aveva né seri contatti diretti con professionisti stranieri, né esperienza diretta della professione (io stesso lo scrissi mentre stavo aprendo la Partita Iva, alla fine del 2000), ma afferma una cosa ben precisa (che, a quanto mi risulta, nessuno ha in seguito mai messo in discussione): che il termine “consulenza filosofica” rimanda a un’attività nata nel 1981

(…) allorché Gerd Böttcher Achenbach mette in pratica un idea coltivata fin da studente: aprire uno studio filosofico “professionale”, cui darà il nome di “Institut für philosophische Praxis und Beratung”. Achenbach può dunque esser considerato con ragione il «padre della pratica filosofica», essendo stato il primo filosofo al mondo a dar vita ad un’iniziativa di questo genere ed a presentarsi all’opinione pubblica e “sul mercato” come “consulente filosofico”.

Una pratica, peraltro, tutt’ora esistente, che cioé non è stata superata dal tempo, che è stata precisata epistemologicamente sia dal suo creatore, sia da molti suoi epigoni, senza tuttavia rigettare le sue basi di partenza, i tre capisaldi che ho menzionato nell’articolo precedente. Quindi, che con l’allora inusitata espressione “consulenza filosofica” si intendesse originariamente denominare la Philosophische Praxis achenbachiana è certificato e garantito dai reperti bibliografici; da qui in avanti chiamerò pertanto Consulenza Filosofica D.O.C.G. la pratica che tenga fede ai principali tratti progettuali della Philosophische Praxis: non essere una professione d’aiuto, anzi di non essere affatto aiuto; essere invece pura filosofia, cioé teoresi, esercitata in una Praxis, vale a dire in uno studio professionale; “sfidare” la filosofia accademica facendo ricerca e teoresi a contatto e in collaborazione con i cittadini, invece che sui libri e tra specialisti.

Sarà questa Consulenza Filosofica D.O.C.G. l’oggetto delle mie prossime riflessioni e chiarificazioni epistemologiche, per le quali peraltro attingerò a vent’anni di esperienze, confronti con esperti e professionisti internazionali, oltre che alle molte pagine di riflessioni che ho scritto in questi anni.

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16 commenti su “Philosophische Praxis, ovvero: la Consulenza Filosofica D.O.C.G.

  • Stefano Zampieri

    C’è una non lieve contraddizione nell’affermare che si tratta solo di una delle possibili “interpretazioni” della consulenza filosofica e poi denominarla “consulenza filosofica DOCG”. Il marchio DOCG infatti garantisce l’esclusiva veracità di un prodotto e implicitamente definisce tutti gli altri come banali imitazioni dell’originale.
    Ma anche se fosse così, siamo certi che il “modello Achenbach” sia IL modello per eccellenza e non solo un singolare esperimento che per altro sembra aver dato vita più ad una varietà di ulteriori esperienze, piuttosto che ad una ortodossia?
    Perchè non presentare la tua interpretazione di consulenza come “consulenza filosofica secondo Neri Pollastri”? Non sarebbe più semplice e più chiaro?

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Credo di aver definito in modo piuttosto preciso il termine D.O.C.G., per cui non c’è proprio nessuna contraddizione. Forse la vedi tu perché non riesci (a mio parere giustamente) a non riconoscere almeno una parte di autorvolezza a chi, come Achenbach, crea una cosa che poi altri si limitano a emulare a modo loro, trasformandola in tutt’altro. Personalmente quell’autorevolezza tendo a darla, né nego a nessuno di emulare trasformando, casomai trovo improprio che si usino gli stessi nomi per denominare esperienze diverse. Per esempio, non ho niente contro la tua “filosofia del quotidiano”, solo che non è consulenza filosofica, né ho nulla contro i colloqui filosofici come professione di aiuto, solo che con la philosophische Praxis e la Consulenza Filosofica D.O.C.G. (nel senso specificato) non c’entrano granché.
      Quanto a chiamare la Consulenza Filosofica D.O.C.G. “consulenza filosofica secondo Neri Pollastri”, non avrebbe proprio senso: il riferimento è all’uso originario dell’espressione e alla pratica di Achenbach, non a quel che ne penso io. Né io sono oggi l’unico a proseguire sulla strada di Achenbach. Per cui direi che, ancora una volta, trasporti sul piano personale una cosa che ha invece il suo senso sul terreno linguistico socioculturale.

      • Stefano Zampieri

        Ciò che io chiamo “filosofia nel quotidiano” certamente non è la “consulenza filosofica” secondo Achenbach o secondo Pollastri, ma rappresenta il presupposto di entrambe, ciò che, a mio modesto parere, manca alla consulenza filosofica per diventare davvero quella “teoresi nella pratica” che tu evochi correttamente. Ed è ciò la cui mancanza ha consentito fantasiose contaminazioni, equivoci, allegre ridefinizioni, ecc.
        Come ho detto altrove (cfr. http://stefano-zampieri.blogspot.it/2018/04/fase-due.html) , se non si riparte da questo si resterà inchiodati alle questioni linguistiche. Ma l’esperienza inaugurata da Achenbach merita molto di più.

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Caro Stefano, avevo provato a risponderti sul tuo blog, ma per motivi a me ignoti la risposta non è mai stata pubblicata. Io credo che tu faccia un po’ di confusione: più che “un presupposto” la filosofia nel quotidiano è una cosa “precedente” alla Philosophische Praxis; i filosofi l’hanno sempre praticata, chi più chi meno. Io di certo l’ho sempre fatta: nelle discussioni con amici e conoscenti, per le quali mi ero guadagnato il soprannome di “filosofo”; nella mia breve avventura politica, ove aprivo spazi di discussione sulla filosofia della crisi ecologica, sul pensiero di Rawls o quello di Nozick; persino quando per pagarmi gli studi lavoravo da operaio, sollecitando i miei colleghi a riflettere sui limiti della tecnica e sulla filosofia della scienza. Limitarmi oggi ad “aprire spazi di pensiero” sarebbe solo un ritorno indietro, che non mi interessa fare. Il progetto della PP/CF è ben altra cosa e non è pensabile senza l’intenzione di remunerare la produttività teoretica (“teoresi in pratica”, come aggiungi tu, non lo direi, perché non capisco neppure cosa significhi). Quindi per me quella che chiami “fase due” è solo una “fase meno uno”, un’abolizione del progetto achenbachiano.
          Ti sbagli anche sull’inchiodarsi a questioni linguistiche: il problema è infatti ontologico, la questione terminologica ne è solo l’ovvia conseguenza. Qui abbiamo a che fare con una pluralità di “giochi” (pratiche) stipulati da individui, ciascuno con regole diverse e conseguentemente caratterizzati da processi, finalità e atteggiamenti diversi. Non ce n’è uno migliore in assoluto (al massimo ce n’è qualcuno meglio fondato epistemologicamente, ma è un altro discorso), ciascuno è giustamente migliore per coloro a cui piace di più. Per cui è giusto che ciascuno giochi il proprio, meno giusto è che tutti cerchino di dire che l’unico vero e giusto è il suo. Se permetti io non dico che quello che piace a me – quello stipulato da Achenbach – sia l’unico vero e giusto, ma solo che è quello originario, in senso meramente storico-generativo, e perciò avrei ritenuto giusto che chi ha scelto di cambiare regole fondamentali avesse anche cambiato il nome della pratica. Tutto qui. Poi c’è chi non lo fa e io mi adeguo, visto che non posso fare altro.
          Quanto a quel che merita l’esperienza di Achenbach, scusa Stefano ma io credo di averle dato molto: centinaia di persone venute da me in questi anni e passate, a pagamento e con soddisfazione, attraverso l’esperienza del filosofare; stima professionale da parte di psichiatri, psicologi e altri professionisti inizialmente più che scettici; restii filosofi d’accademia convinti della bontà della disciplina; consultanti che, saputa la mia stanchezza di sbattermi in un ambiente così conflittuale, mi esortavano a non cessare di svolgere un’attività così importante e così diversa dalle altre. All’affermazione sociale della filosofia e al riconoscimento del suo valore, anche economico, io credo di aver dato molto, e ovviamente non solo io. Per cui non so di cosa tu stia parlando.

          • Stefano Zampieri

            Sì la conclusione è esatta: non sai di cosa sto parlando. Non lo hai compreso, ti accontenti di liquidarlo con una battuta, e ti esaltati invece all’idea di essere detentore unico del marchio DOCG della consulenza filosofica. Ora attendo il post in cui ci spiegherai come mai tutti gli altri hanno sbagliato o equivocato o malinteso.

            Mi viene in mente quella barzelletta dell’omino alla guida che sente alla radio: “attenzione c’è un pazzo che sta guidando contromano in autostrada!” e lui mentre scansa macchine in continuazione pensa “uno solo? saranno duecento!” 😉

            • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

              Caro Stefano, io in questo blog parlo di una cosa, che peraltro non è neppure mia ma di Achenbach, e dei valori che la sostengono (assegnazione di un ruolo sociale alla processualità filosofica, valorizzazione economica della teoresi, ecc.); tu trasformi tutto in un’attacco personale. Mi dispiace, anche perché mi legano a te esperienze comuni e momenti importanti. Ma io su questo piano non scendo, per cui non ho nulla da replicare.

              • Stefano Zampieri

                Francamente non capisco perchè continui a leggere nelle mie repliche un attacco personale, che io non ho proprio alcuna intenzione di fare. Tutte le osservazioni che ho fatto erano – e sono – sulla cosa stessa. E l’unica cosa che per me conti davvero è il futuro di quel che è stato chiamato Philosophische Praxis. Comunque la si voglia chiamare in italiano. Ma mi pare chiaro che questa non è la sede opportuna per un dibattito serio. Un caro saluto.

  • Giorgio Giacometti

    Mi sembra che il nome sia abbastanza brutto che difficilmente qualcuno potrebbe volerto scippare, sebbene, in mancanza di un marchio registrato, il solito “Giacometti” di turno, potrebbe “interpretare” anche la c.f. così precisata, nel senso che potrebbe “interpretare” anche le parole che adoperi – Achenbach adoperò . nel “codificarla”…, il linguaggio è strutturalmente ambiguo.. Certo, più si precisa e si chiariscono fonti e riferimenti, meno si dovrebbe equivocare, apparentemente. A meno che la “cosa” che si pretende di afferrare non sia strutturalmente antinomica (come da tempo ho cercato di mostrare che la c.f. achenbachiana fecondamente è). Ma a un livello di analisi non troppo raffinato, che è poi quello che conta se si vuole fare non teoresi, ma un’attività professionale, rivolgendosi a clienti che credono ancora nell’univocità dei termini (sarà forse uno dei primi compiti del consulente filosofico mostrare invece loro la complessità che si nasconde dietro ciò che appare univoco) il tipo di chiarezza che invochi può senz’altro essere premiante. Apprezzo in particolare il costante richiamo alla radice storica della tua prospettiva, a una ricostruzione il più possibile obiettiva dell’evoluzione della disciplina (già nel testo di Luciana Regina, del 2006, se non vado errato, la c.f. appariva definita in modo piuttosto diverso rispetto al tuo, p.e., per tacere del già citato statuto di Phronesis). Il mio approccio, del resto, mi autorizza a pensare come sempre possibile parlare della “consulenza filosofica” in generale (ogni parlare di qualcosa è ovviamente un’interpretazione, non serve neppure dirlo!) soprattutto se si ha l’accortezza e l’onestà intellettuale di corredare la propria “visione” di puntuali riferimenti alla storia del termine in questione, alla tradizione in gioco, insomma, e se si cerca di fare “risultare” la propria visione non dall’arbitrio, ma da una critica serrata delle altre proposte, storicamente emergenti, condita da argomentazioni (nella consapevolezza, certo, che altri potrebbero argomentare diversamente).

    • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

      Trovo soprendetemente confuso il tuo intervento, Giorgio. Forse a furia di dimostrare l’antinomia delle altrui posizioni sei diventato antinomico e non ti si capisce più bene.
      Una sola osservazione riguardo la radice storica: il testo a cui faccio riferimento è precedente alla fondazione di Phronesis, quindi la denominazione originaria dell’espressione “consulenza filosofica” era quella che respingeva l’aiuto (in quell’articolo è riportato il passo in cui Achenbach afferma che “solo l’idiozia militante sa cos’è l’aiuto”, anche se ancora non era stato tradotto in italiano). Di conseguenza o Phronesis è caduta in un errore – che può ancora correggere – oppure ha scelto una via non achenbachiana, e allora dovrebbe dichiararlo. Antinomie sue, io mica ne faccio più parte.
      Su Regina, è solo uno delle decine di esempi di coloro che hanno preso un termine che aveva un uso e l’hanno impiegato come gli piaceva di più. Magari in futuro lo farò anch’io: dirò che “consulenza filosofica” è un gioco di società che si fa tirando biglie di vetro dentro una scatola di avorio posta a sette metri di distanza. Può andare, no? Tanto nessuno ha il copyright e Achenbach è antinomico…

      • Giorgio Giacometti

        Certo che la radice achenbachiana è storicamente antecedente. Per questo ho considerato la tua prospettiva, in quanto storicamente argomentata, convincente. Se quell’orribile D.O.C.G. significa “nel significato originariamente assegnato alla nozione di ‘philosophische Praxis’ da G. Achenbach” sicuramente chiarisce la tua prospettiva. D’altra parte, come sai, era ed è in atto una discussione tra alcuni su diversi aspetti della teoria di Achenbach, p.e. circa la nozione, che rimetterebbe tutto in gioco, di “meta-teoria praticante” e quella di “bonifica dei bisogni”. Dunque anche a voler essere “achenbachiani” non è detto che si consegua un’unanimità di consensi che non sia meramente verbale. Un corretto approccio storico-ermeneutico, che è a te pare confuso, si distingue tanto dalla pretesa di pervenire a definizioni univoche quanto dall’idea che, data tale impossibilità, si possa procedere a interpretazioni del tutto arbitrarie dei termini in gioco. Le stesse antinomie non vanno solo dichiarate, ma “mostrate”, in concreto (p.e. se la c.f. è “meta-teoria praticante” è impossibile una teoria su di essa, come lo stesso Pollastri, checché tu ora ne dica, affermava con estrema chiarezza in quella nota di “Il pensiero e la vita”); il che richiede “tempo” e, se tale acquisizione di consapevolezza (della mancata “tenuta” di una prospettiva, p.e. achenbachiana pura) è mediata anche dall’esperienza (e dalla riflessione su di essa) e deve essere non di un singolo, ma di una comunità di praticanti, tale “tempo” può acquistare una dimensione “storica” (come è il caso di Phronesis e di coloro che da Phronesis hanno ritenuto di separarsi, come nel caso di Stefano) senza che questa “evoluzione”; giustificata in ogni singolo passaggio, debba essere rubricata come “confusione”.

        • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

          Intanto prendo atto del fatto che la radice achenbachiana sia all’origine dell’espressione “consulenza filosofica”: me lo segno e lo tengo per punto fermo fino a ben strutturata prova contraria. Poi ti faccio osservare che io rubricavo come “confusione” il tuo precedente intervento, non l’evoluzione storica giustificata in ogni singolo passaggio, che è anzi uno degli obiettivi di questo blog, a cagione del fatto che molti si limitano a saltare a piè pari i singoli passaggi evolutivi e ricreano ex-novo l’oggetto come se prima non ci fosse stato nulla, oppure saltabeccano qua e là pescando quel che fa loro più comodo (vecchio difetto dei “filosofi d’accademia”, lontani dalla realtà concreta e per questo liberi di ricominciare sempre da capo a piacimento). In questo tuo intervento, pur formalmente più chiaro, lo hai fatto anche tu: infatti ti appelli ad aspetti dell’approccio di Achenbach necessitanti di interpretazione, ma nascondi sia quelli che non ne necessitano (e sui quali perciò dovrebbe basarsi l’ermeneutica degli altri), sia le interpretazioni storicamente già date di detti temi.
          Per essere più chiari: io posso senz’altro concederti che “metateoria praticante” e “bonifica dei bisogni” necessitino di interpretazione, e anche temporaneametne trascurare il fatto che alcune interpretazioni le hanno già avute (perché abbandonarle, allora? Anche questo “passo di abbandono” va giustificato, nella prospettiva storico-evolutiva), ma resta comunque il fatto che, qualunque cosa esse siano, il loro esercizio: a) non è aiuto, perché il filosofo o è un “idiota militante”, o non aiuta; b) è esclusivamente filosofia nel senso di teoresi (perché una metateoria è comunque una teoresi), esercitata a pagamento; c) non risolve i problemi, né allevia le sofferenze, perché anzi “mette sui binari tutto ciò che può far deragliare il treno”; d) non ha per suo oggetto “l’altro” ma un costrutto linguistico, sia perché il filosofo di questo si occupa (degli “altri” si occupano i professionisti dell’aiuto), sia perché Achenbach è esplicito: «nella Philosophische Praxis si tratta anzitutto e decisamente di prendere ciò che viene esposto come “la cosa stessa”, atteggiamento che si dimostra di solito utile: la “cosa stessa” si mostra contraddittoria e inizia a muoversi e a svilupparsi – la cosa diviene “dialettica”» (G. Achenbach, Il filosofo come consulente, ma la traduzione corretta sarebbe “come professionista”). Che è poi quel che Thomas Polednitschek, ormai oltre dieci anni fa (eh, la storia…) ha precisato parlando di “terza cosa” e dando una risposta precisa anche alla differenza tra la relazione nelle professioni d’aiuto (delle quali è esperto, essendo anche psicoanalista) e quella nella CF/PP.
          Ora, se si tiene conto di questi dati storici assai poco contestabili (se non per rigettarli, lecito ma non in una prospettiva “evolutiva”, bensì in una “alternativa”), allora si può fare un serio lavoro di evoluzione giustificata nei singoli passaggi; in caso contrario si opera quell’arbitrio che tu stesso condanni, ma nel quale finisci per ricadere.

          • Giorgio Giacometti

            Ma io sono sostanzialmente d’accordo con la tua ricostruzione e trovo effettivamente scorretto e confusivo l’approccio di chi pensa di poter ridefinire la consulenza filosofica (e qualsiasi altra cosa) “soggettivamente”, senza tener minimamente conto della “storia della parola” (in Germania come sai, in campo filosofico-politico, è nata anche una disciplina, la “Begriffgeschichte”, ad opera di Koselleck e altri). D’altra non si può neanche essere ingenui. Come sapeva Nietzsche, anche la storia viene scritta sempre in qualche prospettiva e questa prospettiva è sempre orientata ai fini che si propone chi effettua la ricostruzione. Dunque parlerei di ricostruzioni più o meno oggettive, posto che l’assoluta oggettività è irraggiungibile. Comunque, ribadisco (segnati anche questo!) che la tua ricostruzione delle vicende, che abbiamo peraltro condiviso per un lungo tratto (e che è anche quella di Davide Miccione e di altri che hanno scritto sul tema), non fa una grinza e ed è la medesima da cui prendo anch’io le mosse (comprese le precisazioni sui testi di Achenbach che hai fatto or ora). Nondimeno, chiarito tutto questo, si tratta di capire il senso della polemica di Achenbach contro quelle che lui rubrica sotto la denominazione “professioni d’aiuto”. Il discorso sarebbe lungo. Tu stesso da qualche parte e anche recentemente ammetti che si possa ben dire che la c.f. “aiuti” a orientarsi nel pensiero, a chiarire la propria visione del mondo ecc. Non aiuta, certo, nel senso banale delle professioni d’aiuto. Ma siamo sicuri che nel calderone di Achenbach ci stiano tutte le psicoterapie? Se andiamo a vedere da vicino, come abbiamo fatto in “Sofia e psiche”, le cose forse sono meno uniformi… Insomma, potrei andare avanti e discutere se la critica di Achenbach con le ulteriori componenti che sopra evochi, “tenga”, regga. Può darsi una teoresi senza effetti pratici e, se questi ci sono e sono messi a tema, non diventano esplicitamente obiettivi, scopi (come ho argomentato in vari testi)? E così via… Insomma l’evoluzione/svilluppo può portare alla “confutazione” dell’embrione (come sapeva il nostro maestro Hegel). Chi si limita al “risultato” finale (cito quasi dalla prefazione della “Fenomenologia dello Spirito”) può avere l’impressione che si sia di fronte a un’alternativa rispetto alla tesi iniziale, ma, se segue con attenzione la discussione, si accorge che non è che l’emergere “spontaneo” di una certa linea di sviluppo dell’embrione. Tuttavia, non credo che un blog sia la sede migliore per una discussione di questa caratura (che del resto ho in parte già svolto in “Platone 2.0”), che richiede, come dici, un confronto serio con la letteratura di settore nel suo sviluppo storico (in mancanza della quale l’innovatore di turno è come se tagliasse il ramo dell’albero su cui è seduto, squalificando la stessa pratica che intende sviluppare, col negarne la storia)..

            • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

              Certo un blog non è il luogo più adatto per affrontare (tutti) i dettagli di un’analisi e di una ricerca, attività che vivono proprio del loro dettaglio; tuttavia può essere il luogo adatto per evidenziare gli snodi generali che, invece, rischiano di essere oscurati dall’ammassarsi dei dettagli.
              Per esempio, tu accenni alla polemica di Achenbach contro le psicoterapie: perché mai, visto che – come tutte le polemiche – rischia di viziare un lavoro “quanto più oggettivo possibile” sul progetto di Achenbach, e visto anche che Achenbach l’ha completamente abbandonata dopo i suoi esordi come professionista? Che ce ne importa a noi delle psicoterapie e della polemica nei loro confronti, visto che il nostro mestiere di filosofi non prevede né di curare, né di aiutare, ma di fare teoresi? Occupiamoci di vedere se possiamo “vendere la teoresi”, casomai, cosa che quando vent’anni fa iniziai questo lavoro non era scontata, ragione per cui mi dichiarai pronto a lasciar perdere tutto se fosse risultato impossibile. Ebbene, oggi posso dire che questi vent’anni di attività professionale mi hanno invece ampiamente confermato che questo si può fare, perché non uno delle mie centinaia di consultanti mi ha mai detto “mi hai rubato dei soldi vendendomi una merce avariata”. E il mio lavoro – nelle intenzioni, nelle modalità e perfino nei risultati – mostra chiaramente che io non abbia fatto il professionista dell’aiuto (per il quale non ho competenze e, a quanto mi dicono persone che mi conoscono bene, neppure vocazione) bensì ho collaborato a produrre costrutti teoretici.Ho sentito sedicenti colleghi dire che “all’inizio eravamo tutti achenbachiani, ma l’esperienza ci ha detto che non è possibile e che dobbiamo aiutare i clienti e risolvere i loro problemi”; a loro rispondo che hanno raccolto quel che hanno seminato e che la loro è l’esperienza di chi non ha messo in atto il progetto di Achenbach, o che non è stato capace di farlo, per cui oggi cambia strada e si dirige su professioni diverse dalla sua, con strutture e finalità diverse. Lecito, ma – di nuovo – perché non riconoscerlo chiamando le cose con il loro nome, un nome diverso da “Philosophische Praxie” e “consulenza filosofica”?
              Su questo punto emerge peraltro un ulteriore snodo, che a mio parere ha una valenza rilevantissima nel dibattito che si sta sviluppando su questo blog e che perciò riprenderò nel mio prossimo intervento per dargli la giusta rilevanza.

              • Giorgio Giacometti

                Forse potresti chiarire, nella tua prospettiva, che cosa intendeva esattamente Achenbach quando parlava, in modo un po’ sprezzante, apparentemente, di “professioni d’aiuto”. Di che si tratta esattamente? Del counseling, distinto dalle psicoterapie? Non so se tutti i counselors condividerebbero questa etichetta e, comunque, accetterebbero la critica senza replicare. L’intenzione di vendere teoresi potrebbe essere, poi, intrinsecamente autocontraddittoria, prima ancora di provare a sperimentare se la cosa si possibile, se intendiamo in un certo modo la teoresi (come attività fine a se stessa) e in un certo altro modo il “vendere” (come attività che ha lo scopo di far guadagnare il venditore). Si tratta di una fecondissima e affascinante provocazione. Ma, se entriamo dentro i concetti, dietro le parole, e approfondiamo (cosa che – ribadisco – è difficile fare in un blog), potrebbero venirne fuori delle belle. Che non sempre chi vende vuole guadagnare, forse, ma anche che c’è un’idea di teoresi (o di filosofia), come quella del pragmatismo americano, che mira all’utile e alla soddisfazione di bisogni. Non era l’idea di Achenbach? Può darsi. Però potrebbe costituirne una legittima evoluzione mediata dall’esperienza, non un abbandono completo del sentiero. In ultima analisi se un tuo consultante soddisfatto ti dicesse “Neri, la consulenza chi mi hai offerto mi ha davvero aiutato a risolvere i miei problemi, anche se, mentre la svolgevamo, non avevamo certamente questo obiettivo esplicito, ma solo di quello di chiarificare la mia visione del mondo”, non mi straccerei le vesti (nei tuoi panni… anche perché, se lo facessi, tornerei a essere io!) e utilizzerei questa e simili dichiarazioni per pubblicizzare la mia attività. Comunque attendo con trepidazione il tuo prossimo intervento chiarificatore, lieto di averti in piccola misura provocato a concepirlo…

                • Neri Pollastri L'autore dell'articolo

                  Caro Giorgio, non posso chiarire cosa intendeva Achenbach con “professione d’aiuto” per la semplice ragione che non usa mai quell’espressione! Di conseguenza, peraltro, non critica quelle professioni, tantomeno lo fa in modo “sprezzante”. Critica solo la psicoanalisi, non sempre in modo opportuno perché la prende in blocco, cosa che so bene essere fallimentare. E poi critica l’aiuto in sé, l’idea di aiuto e la pretesa di voler aiutare gli altri. Non le professioni d’aiuto. Quindi non c’è nessuna ragione di perdere tempo a fare confronti: basta tener presente che nella CF/PP è essenziale respingere ogni tentazione di “aiutare”, così come i cosiddetti “strumenti dell’aiuto”, che presuppongono una determinata idea dell’uomo, dell’altro, del lavoro che dovremmo fare, appunto, per aiutarlo. Cosa facciano le professioni d’aiuto, semplicemente, non c’interessa.
                  L’intenzione di vendere teoresi potrebbe essere intrinsecamente contraddittoria ancor prima di sperimentarla esattamente come potrebbe esserlo il concetto di movimento prima di sperimentare se Achille pie’ veloce riesca o meno a raggiungere la tartaruga. E’ un sofisma “da tavolo” tipico di quella filosofia “della pretesa” che disegna il mondo a tavolino e non accetta che sia diverso dai suoi disegni. Poi Achille lascia la tartaruga indietro, Achenbach, io e mille altri vendiamo teoresi, retribuiti da consultanti soddisfatti, e il filosofo continua a dilettarsi con la sua “affascinante provocazione. Buon divertimento!
                  Se un mio consultante mi dicesse quella frase non mi straccerei le vesti, anche se è difficile che succeda, visto che nella maggioranza dei casi quando termino le mie serie di consulenza l’ospite non ha risolto i suoi problemi. E’ soddisfatto perché ha capito qualcosa, grazie alla teoresi che abbiamo fatto, ma i problemi, ammesso che li risolva (di cosa stiamo parlando? Che se gli è morto un figlio la consulenza l’ha fatto risorgere? Che se voleva comprare la barca gli abbiamo dato il segreto per vincere al lotto?), in genere succede molto dopo che abbiamo finito di vederci. E riguardo al “mi hai aiutato”, lo corrggerei e gli farei osservare come non sia vero, che gli è stato utile fare un lavoro nel quale io ero solo un collaboratore interessato – interessato al lavoro e ai suoi esiti e interessato a farlo venire bene perché ero retribuito.
                  No, non utilizzerei quella dichiarazione, perché è falsa: se è vero che la CF/PP si basa sulla parresia, sarebbe immorale e pure controproducente iniziarla con una menzogna. Ci sono tanti modi sinceri e corrispondenti al vero per pubblicizzarsi, perché usarne uno falso?