Cos’è la Consulenza Filosofica D.O.C.G. e perché la si confonde con altro 1


Il dibattito che sta emergendo da questo blog pare aver conseguito un almeno parziale risultato, che giustifica la mia decisione di parlare di una “consulenza filosofica D.O.C.G.”: che storicamente il significato dell’espressione “consulenza filosofica” rimanda prioritariamente alla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach. Quindi, quando si usa tale espressione si intende “la pratica nata con Achenbach nel 1981”.

Prima di proseguire, vorrei però specificare una cosa: in questo blog non è mia intenzione dimostrare che la pratica denominata “consulenza filosofica D.O.C.G.” sia la sola cosa che un filosofo può fare per guadagnare (lecitamente) dei soldi, o per dialogare con le persone, o che qualcosa del genere si debba fare necessariamente a pagamento; né sto cercando di dimostrare che tale pratica sia in qualche senso “migliore” di altre; e neppure ho intenzione di mettere in nessun modo in mora chi segua strade diverse. Qui io sto solo cercando di:

  • difendere la “consulenza filosofica D.O.C.G.” da tutti coloro che la stanno denigrando o ne stanno negando l’esistenza, dicendo che si tratta di una pratica “tarallucci e vino” e che è inconsistente perché “non si retribuisce la teoresi” o perché “è impossibile dialogare con chi ha un problema senza aiutare”;
  • informare tutti i neofiti che questa pratica esiste, è diversa da altre che vengono vendute con lo stesso nome, ha pregi e difetti che è bene che chi vi si avvicina a quest’ambito conosca e possa ben valutare;
  • tornare ad avere gli spazi comunicativi (termini chiari dall’uso condiviso, pagine di carta o virtuali che diano informazioni corrette) per praticarla, perché questo e non altro è ciò che faccio da vent’anni e che voglio continuare a fare;
  • di conseguenza, arrivare prima o poi a un accordo su come usare l’espressione “consulenza filosofica” senza che a ogni pie’ sospinto se ne diano “definizioni” e “FAQ” che, per esistere, abbiano la necessità di essere distorte e/o offensive nei confronti del lavoro altrui.

Stando così le cose, torniamo a descrivere cosa fosse “la pratica nata con Achenbach nel 1981” (e cosa sia ancor oggi, visto che è viva e vegeta). In primo luogo va osservato come si trattasse di un’invenzione, un prodotto fin lì non esistente, definito dal suo creatore attraverso una serie di principi di valore che davano vita a delle modalità operative. Non quindi un “oggetto naturale”, di cui “scoprire” le “vere” caratteristiche, ma un progetto da prendere così com’è, magari perfezionandolo (com’è infatti successo, perché c’è un ampia letteratura che rimane fedele ai principi chiave di Achenbach ma ne sviluppa senso e portata), oppure da respingere construendone uno diverso (e anche questo è successo, perché per esempio Tim LeBon o Oscar Brenifier hanno apertamente riconosciuto di discostarsi da Achenbach e fare qualcosa di diverso).

Nel precedente articolo ho sintetizzato in tre punti le principali finalità dettate dai principi di valore assunti da Achenbach: portare la filosofia “fuori dalle mura” dell’accademia, valorizzare economicamente la filosofia per sé stessa, offrire al pubblico un inedito modo di affrontare le difficoltà della vita. Per far questo egli decide di mettere sul mercato le sue sole competenze filosofiche, ovvero di provare a farsi pagare solo per il suo filosofare con gli ospiti, rigettando esplicitamente l’uso di strumenti e atteggiamenti terapeutici, d’aiuto, psicologici, sapienziali, formativi, di cura, relazionali, e via dicendo. E qui diventa chiara l’importanza della tanto criticata “parte in negativo” della sua fondazione: la parte in positivo è infatti il filosofare teoretico, tutto il resto va semplicemente escluso. Il consulente filosofico è questo e solo questo: un filosofo che fa teoresi, in collaborazione (in “rapporto” e non in “relazione”) con il suo ospite. Di conseguenza la Philosophische Praxis, cioé la consulenza filosofica D.O.C.G., quella originaria, è un’attività produttiva nella quale è importante la componente performativa: si producono artefatti teoretici, la fase produttiva dei quali (il processo del filosofare, o con-filosofare come lo chiamano alcuni) ha un’importanza decisiva nella determinazione della sua qualità.

Nel corso della discussione sviluppatasi in questo blog è stato giustamente fatto osservare che ogni impresa umana ha un suo proprio sviluppo dinamico che anche la CF/PP è giusto che abbia, fatta salva la giustificazione di ogni suo singolo passaggio. Anche perché – è stato detto –

siamo certi che il “modello Achenbach” sia IL modello per eccellenza e non solo un singolare esperimento che per altro sembra aver dato vita più ad una varietà di ulteriori esperienze, piuttosto che ad una ortodossia?

Anche trascurando la difficoltà di parlare di “ortodossia” per una pratica priva di una metodologia e incentrata su una indefinita “metateoria praticante”, non si può non osservare come qui si sia di fronte a un palese cortocircuito terminologico: se infatti la CF/PP “nasce con Achenbach”, semplicemente non può esistere un “modello Achenbach”, perché quella di Achenbach è la pratica tout-court. Detto diversamente: parlare di “modello” richiede che si specifichi di “che cosa” esso sia modello, ma qui il che cosa è per l’appunto definito dalla fondazione achenbachiana. Almeno per i suoi aspetti progettuali e di valore sinteticamente riportati sopra, perché la pratica può ben avere aspetti da chiarire, interpretare o completare, ma i suoi elementi progettualmente fondanti devono essere conservati. Cambiarli non origina “un altro modello” della stessa pratica, bensì proprio un’altra pratica.

E’ quanto accade infatti quando si ibrida il lavoro filosofico con finalità e competenze delle professioni d’aiuto: non abbiamo più la valorizzazione della filosofia in quanto filosofia, ma in quanto strumento per aiutare; non abbiamo più un modo nuovo di affrontare le difficoltà della vita, ma un modo derivato da quello delle professioni d’aiuto; non abbiamo più un filosofo pagato per fare il filosofo, per fare teoresi, ma per aiutare. Ovvero, non abbiamo più Philosophische Praxis/Consulenza filosofica, ma un’altra pratica, quella che per quindici anni è stata chiamata counseling filosofico, con un uso linguistico che oggi, chissà perché, si vuole eliminare.

E analogo discorso si può fare nel caso di voler introdurre finalità come “risolvere problemi”, far uso di “teorie strategiche”, eliminare l’aspetto della retribuzione o riferirla ad altro che non sia la mera teoresi: in questi casi non siamo di fronte ad “altri modelli”, ma a un deciso, radicale stravolgimento della pratica, ovviamente lecito, ma a condizione che si riconosca che non si sta più parlando di quella “nata con Achenbach nel 1981”. E, conseguentemente, se ne cambi il nome.

Ma perché questa confusione? Io credo che il problema nasca tutto da un mai superato “vecchio vizio” della filosofia: l’idea che ogni filosofo faccia storia a sé e abbia il diritto di guardare la realtà come meglio gli pare, a prescindere da quanto maturato da chi lo precedeva. Come ben noto, la storia della filosofia è piena di questi capovolgimenti di fronte, basati sulla semplice sostituzione di alcuni presupposti della lettura delle cose e sulla conseguente radicale modifica di quest’ultima (rimando al bel libro di Davide Miccione Ascetica da tavolo. Pensare dopo la svolta pratica per una riflessione sull’argomento).

Ora, anche se spesso il suo abuso non giova, tutto questo nel filosofare va benissimo, anzi è una delle sue ricchezze: permette infatti di dar vita a una pluralità di “mondi possibili”, alcuni dei quali anticipano in parte o in toto mondi di fatto realizzati nelle epoche successive, mentre altri svolgono l’utile compito di misurare o mettere alla prova quelli realizzati qui e ora. E va benissimo anche all’interno della Consulenza Filosofica/Philosophische Praxis, perché far questo nel dialogo con l’ospite favorisce il processo di ricerca che sostanzia quella pratica. Va meno bene, invece, nel discorso sulla Consulenza Filosofica/Philosophische Praxis, in quanto essa non è un “mondo possibile”, bensì uno specifico prodotto da mettere sul mercato.

Insomma, qui siamo finalmente nella tanto declamata “vita concreta”, della quale i filosofi dovrebbero prendere esperienzialmente atto piuttosto che cambiarla a tavolino come fa quella che Achenbach chiama “filosofia della pretesa”. Invece di farlo, anche i filosofi della “svolta pratica” reiterano il “vizio accademico” e pretendono di reinterpretare a piacimento il termine che definisce il prodotto. Ma, sì facendo, ne cambiano il denotato, che originariamente era “la pratica nata con Achenbach” e dopo la reinterpretazione diventa “il filosofo che cerca di guadagnare dei soldi”, oppure “il filosofo che incontra la gente”, o ancora “il filosofo che si prende cura dell’altro”, e via dicendo ad libitum del singolo interprete. Tutte denotazioni, però, che non rimandano a “la pratica nata con Achenbach”, oppure lo fanno solo in parte, ma che comunque ne cambiano radicalmente fondamenta, valori, significato e processo. E che perciò – a mio parere, che non posso pretendere sia condiviso – abusano dell’espressione “consulenza filosofica” e che – oggettivamente, aldilà del mio parere – utilizzandola tutte ne rendono l’uso confuso, ostacolando la sua comprensione da parte del grande pubblico.

Situazione, quest’ultima, che non giova a nessuno e per la quale urge una soluzione, nei termini che indicavo nell’apertura dell’articolo.


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Un commento su “Cos’è la Consulenza Filosofica D.O.C.G. e perché la si confonde con altro

  • Giorgio Giacometti

    Non mi sembra che Achenbach distinguesse così nettamente, come ora fai tu qui, l’esercizio filosofico con la sua caratteristica tendenza auto-critica, auto-differenziantesi ecc. dalla “philosophische Praxis” che, in effetti, identifica con questo esercizio stesso (come tu stesso hai più volte sottolineato: “è filosofia e nient’altro”) e considera “meta-teoria praticante”. La “cornice” professionale che, a tuo modo di vedere, dovrebbe “ingabbiarlo” per farlo esistere sul mercato conferendogli un senso univoco non è mai messa a tema da Achenbach (anche perché ne farebbe “saltare” il carattere meta-teorico).
    Paradossalmente è proprio il desiderio di caratterizzare in senso “professionale”, anzi francamente “mercantile”, l’esercizio filosofico che induce molti, oggi, rotti gli indugi, a cercare di individuare il tipo di “aiuto” che esso può offrire. Sono del tutto d’accordo con te sulla circostanza che in tale ricerca i più, probabilmente, si limitano a ibridare acriticamente un approccio supposto “filosofico” (ma che tale, secondo me, proprio in questo “ibridato”, cessa di essere) con indicazioni metodologiche provenienti da altre professioni, come il counseling psicologico (in una sorta di “fusione a freddo”). Il risultato non può che essere deludente.
    Tutt’altra cosa è se il “filosofare con altri”, di cui si dà prova in una consulenza filosofica à la Achenbach, conduce i due interlocutori a chiedersi, meta-teoricamente, se ciò che vanno facendo non possa o debba conseguire qualche genere di beneficio extrateoretico. In altre parole l’oltrepassamento della “posizione” achenbachiana iniziale potrebbe essere del tutto legittimo e pienamente filosofico qualora venisse effettuato dall’interno della pratica achenbachiana medesima.
    Il fatto che tu neghi che questo accada o possa accadere e continui a sostenere di “vendere pura teoresi” non è sufficiente a escludere che questa evoluzione auto-critica della pratica sia possibile, tanto sul piano empirico, quanto su quello teorico. Si potrebbe anche mettere in discussione che tu stesso possa “vendere pura teoresi” (per un’eventuale intrinseca auto-contraddittorietà dell’espressione). In questo caso (del tutto ipotetico, di scuola…) la “philosophische Praxis” come tu l’hai tratteggiata non sarebbe semplicemente mai esistita e ti dovresti convincere che tu stesso non hai sempre fatto altro che quello che non credevi di fare, aiutare le persone a stare meglio (ragione per cui talvolta tornavano da te).
    Suppongo che gli “amici” di Pragma credano qualcosa del genere, cioè che l’intenzione tua e, forse, anche di Achenbach fosse autocontraddittoria ab origine e che, quindi, se consulenza filosofica deve essere, essa debba necessariamente essere qualcosa di utile a risolvere problemi. Il limite (per quel che posso capire) della loro posizione è che non è sufficientemente argomentata. A questo fine essi farebbero tutti bene, in massa, ad acquistare il mio “Platone” 2.0 che, nella sua feconda ambiguità, si colloca come a mezza strada tra le due prospettive (tua e degli amici “pragmatisti”, che giudico, se estremizzate, autocontraddittorie), ma ha il pregio di discutere analiticamente pregi e limiti del pollastrianesimo, suggerendo possibili “exit strategies”, non esenti, tuttavia, a loro volta, da aporie.